Finocchietto selvatico siciliano

Finocchietto selvatico siciliano, ovvero,’u finocchiu di timpa

Oggi mi va di parlare del finocchietto selvatico siciliano, meglio conosciuto, in dialetto, come finocchiu di timpa, simpatica pianticella spontanea del nostro Sud. E’ proprio così: non c’è modo di annoiarsi nella pratica culinaria, in terra di Sicilia. Mai e poi mai, oserei dire! Ebbene sì, le bontà della campagna siciliana fanno parte integrante della nostra quotidianità a tavola. Oltre a ciò, uno dei molteplici aspetti, diciamo così, empatici che caratterizzano gli isolani e le famiglie del Mezzogiorno, è la congenita generosità, la condivisione, con familiari, amici e vicinato, di quel che si è raccolto in campagna. Ovviamente, c’è sempre l’eccezione alla regola e qualcuno (e, purtroppo, essendo adesso diventati un po’ tutti individualisti, accade in misura maggiore rispetto al passato!) se ne infischia. Sembra sciocco per chi abita la Penisola, a Settentrione, oltre il Tevere, ma non lo è affatto per noi siciliani. Eh, sì, siamo fatti così! D’altronde, il siciliano, orgoglioso com’è, tiene fede al principio secondo cui “Stare bene a tavola è sentirsi felici” o, con altra circonlocuzione, la tavola è l’altare votivo dal quale ringraziare il Buon Dio dell’immenso dono del cibo, avente in sé il sole rovente e l’intera mescolanza degli elementi naturali che accendono il cuore della Sicilia. Insomma, la Sicilia è sempre la Sicilia e non ce ne sono altri esemplari al mondo. E di ciò innalziamo le lodi al Signore. Allora, capita e capiterà ancora, a ognuno di noi di ricevere e di donare qualsiasi delizia, sia essa proveniente dall’orticello di casa o dai poderi rurali, dove si crogiolano, pacifici e austeri, gli ulivi, aranceti, mandorleti. Persino le terre incolte, in pieno inverno o nell’incipiente primavera, profondono gli elogi a Cerere della loro proverbiale fertilità, accogliendo tra le zolle, schiaffeggiate dal vento, delle erbette spontanee, capaci di stupire il nostro palato. Ora, qualche giorno fa, ho ricevuto una graditissima “sporta” di finocchietti selvatici, appena colti da esperte e sapienti mani.

Breve parentesi conoscitiva

Si tratta del Foeniculum Vulgare, appartenente alla famiglia delle Apiaceae, ma quello che ci interessa è il Foeniculum vulgare varietà dulce. L’altra varietà che ha proprietà prettamente erboristiche è il cosiddetto Finocchio amaro (Foeniculum vulgare, varietà vulgare). Di sicuro, è possibile reperirlo in tutta l’area mediterranea dalla costa fino ai 1000 mt. circa, ma parliamo, in questo caso, delle aree centro – meridionali. Qui, dalle nostre parti, in Sicilia occidentale, si trova facilmente ovunque, dai cigli delle strade, alle scarpate scoscese, o alle terre incolte in aperta campagna. Spesso, viene chiamato con un curioso nome: finocchiu di timpa, ove per “timpa“, in siciliano, s’intende il salto, il dirupo, il burrone o il semplice rilievo o collinetta delle nostre contrade. Ora, sono note le sue proprietà rinfrescanti, digestive e diuretiche. Tuttavia, per le dettagliate informazioni della pianta, rivolgetevi all’erborista a pochi  metri da casa vostra o date un’occhiata ai manuali specifici, redatti dagli esperti botanici. Per quanto mi riguarda, me la cavo a malapena! Comunque sia, cercate di allenarvi nel riconoscimento e non confondetelo con il fetido Aneto – Anethum graveolens. Però, se non siete sicuri di quel che fate, lasciate perdere, non fa per voi andare per campi a raccogliere erbette.  Ma, per favore, non comprate mai, all’angolo della strada, i ciuffetti di finocchio (o altre verdure di qualsiasi genere) dallo sconosciuto venditore ambulante o dall’erbivendolo occasionale. In ogni caso, fidatevi, se proprio dovete comprare e vi secca sporcare le vostre regali calzature con la terra della contrada Vattelapesca, di persone di chiara fiducia e che possano garantivi la provenienza. Comunque, è interessante saper come gli antichi, infinitamente più saggi di noi, tenessero in grande considerazione le proprietà del finocchietto selvatico e, spesso, lo ritenevano un amuleto naturale capace di sprigionare effetti positivi e benefici sull’organismo. Ad ogni buon conto, ne sapevano qualcosa i gladiatori di Roma che lo usavano come simbolo di vittoria, di prestanza fisica e, alternandolo con i fichi secchi, costituiva un ottimo integratore alimentare della loro dieta.

Riprendiamo il discorso…

Ora, dalle mie parti, nonostante le malate e stravolte stagioni, che sembrano attraversare notevoli guai climatici, e l’uso improprio di pesticidi che il Sapiens, non proprio Sapiens, oggi utilizza spicciativamente come fosse comune acqua d’irrigazione, è possibile reperirne una grandiosa e assai considerevole quantità in natura. Tuttavia, come già ricordato altrove, bisogna saper riconoscere bene la pianticella e non scambiarla con l’aneto o altro ancora. Già, mai confondere ‘u finocchiu duci con ‘u finocchiu asinu (amaro, come potrebbe essere, ad esempio, l’aneto di poc’anzi). Come dicevo, appena aperta quella famosa “sporta” (non è la sportula, ossia il paniere di vimini o la cesta dei Romani, bensì il classico sacchetto di plastica che utilizziamo per la spesa al supermercato) l’intenso e penetrante aroma di anice allo stato puro e di agrodolce olezzo primaverile delle terre della Sicilia occidentale si sono impadroniti della mia cucina. All’istante, mi sono tornati in mente tutte le “erbe alte” dove mi immergevo, quasi nuotando, da bambino: ruzzoloni e capriole a più non posso, in quel di Bosco di Vita, sotto il sole clemente di Monna Primavera. Poi, ho creduto al potere sciamanico ed evocativo di quell’essenza che pizzicava, benevola, le mie narici: in fila indiana, tenendosi per mano, ecco le allegre e spensierate giornate celebranti il Primo del mese di Maggio. A seguire, le accese cromie di un tripudio di fiori ebbri e nati liberi da una terra, benigna e amara, copulavano in un lussurioso amplesso con gli odori della salsiccia, sfrigolante sulla brace e con il novello aglio che condiva, con la complicità dell’appena nato olio extravergine di contrada Torretta e della tenera e pungente mentuccia, gli spaghetti appena scolati. Inoltre, quelle polpette fritte che il finocchiu di timpa rendeva squisite e particolari al tempo stesso, guarda caso nel giorno del 19 marzo, quando San Giuseppe infondeva fede ai papà salemitani nell’imbandire gli altari votivi delle Cene approntati con mortella, aranci, alloro e limone e tanta buona lena e devozione sincera alle donne del mio paesello nel preparare le celeberrime 101 pietanze del pranzo dei Santi. Così, la ridda delle immagini di certa verde memoria rimbalzava festosa tra i teneri ciuffi che tenevo in mano, nell’atto di pulirli e nell’idea ben fondata di come cucinarli. Però, nello stesso tempo, sorgeva in me il cruccio di non averli raccolti di persona. Sì, perché, parliamoci chiaro, il siciliano con la esse maiuscola accetta ben volentieri la verdura in dono, ma non l’aspetta come la manna dal cielo. Invece, preferisce recarsi direttamente alla fonte: la “cota” nei campi è un rito cui egli non si sottrae. Peraltro, per lui, significa anche “arricriarisi ‘n campagna” (rigenerarsi facendo una capatina in campagna). Di certo, un rito che favorisce il contatto con la propria terra, quasi fosse un atto di dovuto omaggio al genius loci che propizia il patto di amicizia tra l’uomo e il suo habitat circostante. “Beh, pazienza, – ho pensato – sarà per un’altra volta! Per il momento, mi occuperò di…assaporali!” In ogni caso, ricordiamocelo, del finocchio sarvaggio non si butta via niente. Difatti, le infiorescenze estive, una volta disseccate, forniscono quei sublimi semini che tante applicazioni trovano nell’arte culinaria: mai dimenticarli nella salsiccia nostrana  (lungi da noi, per carità, la luganega veneta o lombarda che è solo falsamente assimilabile alla nostra sasizza!), né negli intingoli a base di sugo verace di pomodoro (mai, mi raccomando, quelli in barattolo, in bella mostra sugli scaffali dei supermercati!) Senza alcun dubbio, statene certi, il forte e deciso sapore che ne deriva andrà a personalizzare la salsa con quel tocco di sapidità aggiunta ed inconfondibile, cui, una volta provato, non si può più rinunciare. Insomma, un’erbetta apparentemente insignificante, che riserva delle incredibili sorprese e detiene un’invidiabile versatilità d’uso. Ma il sapore si esalta se il finocchietto di “timpa” viene consumato al naturale. Ovviamente, bisogna rispettare un certo protocollo: in primis, fare i famosi due passi salutari all’aria aperta, poi individuare la tenera pianticella, ritornare a casa e, quindi, mettersi all’opera. Solamente in questo modo, il finocchietto selvatico avrà un gusto che conquisterà la gola. Sì, occorre proprio meritarselo sul campo e non avere tutto lì, precotto e già impiattato, come, ormai, siamo abitati a fare.

Consigli d’impiego

A parte gli scherzi, dopo aver espletato all’accennato semiserio rituale, lavate per bene il frutto della vostra ricerca, tagliate i ciuffi e i gambi in brevi segmenti, poi sobbollite lentamente, per un’oretta e mezza, con l’aggiunta di sale, in un capiente tegame. Successivamente, scolate i finocchietti ed aggiungete un filo d’olio e un po’ di aceto di vino. Provateli così, ne vale la pena! Dopo di che, altro consiglio è quello di cuocere un bel piatto di pasta (ehi, mi raccomando, che sia rigorosamente del Sud!) e , quindi, condirla con il finocchietto appena lesso: il solito filo d’olio appena franto e vai che è una goduria! In alternativa, se avete la seria intenzione di cucinarli in estate, quando le scorte in natura si sono pressoché esaurite, non dovete fare altro che metterli in un sacchetto di congelazione, freschi o già bolliti, e riprenderli al momento opportuno. Tuttavia, come detto prima, caldeggio di degustarli insieme alla salsa di pomodoro ed altri ingredienti segreti, da me ampiamente sperimentati. Personalmente ne vado ghiotto, anche perché so come e cosa usare. Però, a onore del vero, debbo dire che le ricette di finocchietto selvatico sono davvero innumerevoli ed altrettanto succulente. In questo preciso istante, ne sono sicuro, qualcuno, dall’altra parte della rete, nascosto nell’ombra e curioso come un “attu liccu” (gatto goloso) si sta chiedendo, con bramosia delle papille gustative, come si possa preparare detto intingolo. Allora, se la curiosità dovesse degenerare in insonnia, potrei, su gentile richiesta, fornire suggerimenti o la deliziosa e misteriosa ricetta. Dopo, vedremo quel che si può fare. Intanto, buona raccolta.

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Salemi, 6 aprile 2019

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