L’Iperico, ovvero quello che dalle mie parti è conosciuto come Pricò.
Entriamo in contatto con l’iperico, chiamato volgarmente Scacciadiavoli (in siciliano, Pricò)
Una delle essenze spontanee, reperibile nelle nostre campagne siciliane, è senza alcun dubbio l’Hypericum perforatum. Occorre un po’ di esperienza e un occhio di lince per individuarlo tra le stoppie e le infiorescenze dell’afosa plaga incolta. Esso si confonde tra le tante pianticelle e bisogna avere buone conoscenze botaniche per riconoscerlo e selezionarlo. Certo, potremmo agire come certuni che neanche si scomodano per andarlo a cercare nei posti più disparati, dal momento che hanno acquistato la specifica bustina di sementi e lo stanno raccogliendo a casa. Sì, perché l’iperico è così famoso che la gente lo tiene a portata di mano e lo semina a due passi, in angolo del giardino. Comunque vada, il Pricò siciliano è una pianta inconfondibile; è perenne, diffusa in quasi tutta l’Europa e nella cosiddetta ”Africa bianca” (la parte settentrionale del continente); è alta mediamente 40 – 50 cm. ca. ed ha un bel portamento, distinguendosi nettamente tra le spontanee per via del suo fusto ramificato e dotato di peculiari foglie verdi e opposte, che sono punteggiate da una miriade di ghiandole (se osservate da distanza ravvicinata) dove si trova un olio volatile che caratterizza l’intera pianta. Dovrebbe trattarsi dell’ipericina, il suo rosso principio attivo. Alla fine di maggio e, in talune zone, fino ad agosto inoltrato, l’iperico si adorna di gradevoli infiorescenze composte da fiori di un giallo intenso, tendente al colore dell’oro, simili ad una stella e raggruppati in una sorta di pannocchia che svetta verso il cielo. La famiglia di appartenenza è quella delle Ipericacee e, fin dall’antichità, la pianta era conosciuta per l’immancabile olezzo aromatico e balsamico, dovuto alla notevole quantità di tannino, resina, ipericina, olio essenziale, capaci, a quanto sembra, di contribuire alla risoluzione di parecchie affezioni ed innumerevoli malanni. Insomma, ovunque, l’iperico viene decantato per le proprietà antiasmatiche, antireumatiche, diuretiche, sedative e via discorrendo. E un bravo erborista saprà consigliare, di volta in volta, i vari rimedi specifici.
La fama dell’iperico nei tempi
A Salemi, come nell’intera Sicilia occidentale viene chiamato, con un nome ermetico e contratto, Pricò. Pare un nome proprio di un guaritore locale, talmente noto per le sue pozioni, che viene naturale dargli del tu o attribuirgli un appellativo familiare: Pricò il portentoso. E la fama del pricò o, se si vuole, l’iperico, è assai consolidato ed affonda le radici nel misterioso passato delle genti. Forse, perché, nell’oscuro (beh, mica tanto!) Medioevo, l’iperico veniva usato per debellare la presenza del demonio nelle dimore: infatti, era abitudine bruciare le foglie della pianticella o farne fomento (impacco medicamentoso) per assicurarsi la lesta dipartita del diavolaccio. Da lì parte la popolare denominazione di Scacciadiavoli dell’iperico perforato. Ora, sul cacciadiavoli (o scacciadiavoli) si è stratificata una specie di leggendaria nomea e, nello stesso tempo, si è accresciuto quell’alone di mistero che lo rende, nella credenza popolare, una pianta dai mille poteri propiziatori e apotropaici. Infatti, non a caso, uno dei nomi più comuni della pianta è Erba di San Giovanni, il Santo capace di scacciare le presenze oscure e il maligno dalla povera testa della folla di uomini oppressi principalmente dalla disuguaglianza sociale, dagli affanni, dalle tribolazioni, che tanto concorrevano alla scissa e assai vulnerabile personalità delle genti nei periodi oscuri della Storia. Da che mondo e mondo l’iperico è stato associato alla ricorrenza di San Giovanni coincidente con la notte del solstizio d’estate, ossia tra il 23 e il 24 giugno. Una data singolare se teniamo conto che il 24 giugno si celebra, caso unico nel calendario dei Santi, la nascita e non la morte di San Giovanni. Ricordiamoci di essere ad appena qualche passo di distanza dall’inizio ufficiale dell’estate (20 giugno) che viene menzionato con il nome di solstizio, vocabolo tratto direttamente dal latino solstitium. Il termine latino indicava una sosta del sole; si credeva, infatti, che la grande stella, a noi essenziale, sorgesse e declinasse all’incirca nella medesima posizione fino, guarda caso, alla data del 24 giugno. Poi, improvvisamente, invertiva la rotta per spargere, alla sua massima potenza irraggiante, luce e fecondità alla Terra e agli uomini. Era la notte dei sabba e delle streghe, era la notte dei riti e dei culti pagani e popolari, la notte dove le leggende suscitavano storie di prodigi misteriosi che rendevano incolumi o felici chi li ripeteva o li riportava in superficie. Una notte che vedeva il connubio tra Sole e Luna che vivificava le forze e lo spirito di tutte le presenze del Creato, dopo la lunga notte dell’inverno. E, addirittura, coloro i quali fossero venuti alla luce in questa magica notte potevano davvero ritenersi fortunati e al sicuro dal qualsiasi negatività o influenza malefica; i nati sotto la protezione di San Giovanni erano immuni da ogni malattia del corpo e dell’anima. Per giunta, i rametti di iperico venivano posti sopra le icone dei Santi, quasi a corroborare le grazie che da essi discendevano sui fedeli devoti. Probabilmente, per tale motivo, la pianta assunse il particolare nome di iperico, vocabolo che scaturisce dal greco ὑπερικόν (υπο- «sotto», ed ἐρείκη – erica – oppure, ancora εἰκών – immagine). Insomma, un autentico miracolo naturale usato da sempre in funzione apotropaica. Si potrebbe disquisire per ore ed ore sulla valenza popolare della notte di San Giovanni e rinvenire una quantità innumerevole di riti, usanze, credenze, che ci porterebbero, di filato, nel territorio posto tra il paganesimo puro e la rivisitazione della fede cristiana.
L’uso ricorrente
Ma torniamo all’iperico. Non è facile scovarlo, come già dicevo, nei terreni semiaridi o soleggiati della nostra Sicilia (delle altre parti europee, ove cresce indisturbato, lascio spazio ad altri); spesso, lo peschiamo nei posti più insoliti: alle pendici delle nostre montagne, piene di sterpi, assolate e, di frequente, purtroppo, vandalizzate, lungo le strade provinciali dissestate, nei campi incolti o lungo le mulattiere, ormai abbandonate e desolate. Ma quando si avvista, lì tra variopinte o dorate essenze dell’infuocata estate di Sicilia, si ha l’impressione di aver trovato una pepita d’oro. L’ho raccolto anch’io, dopo il triste lockdown che ci ha travolto e scosso. La prima idea di cosa farne è stata quella che lo associa all’uso ricorrente che risale ad un antichissimo rimedio popolare: bisogna farne, ho pensato subito, l’ogghiu di pricò, ossia la preparazione più semplice che se possa ricavare. Ora, a beneficio di chi non lo sappia, l’ogghiu di pricò è un oleolito, ovvero un unguento che si realizza con estrema facilità. Vediamo un po’ come si può agire. Innanzitutto, si raccolgono circa 500 gr. di infiorescenze (mi raccomando, fresche e non disseccate). Quindi, si lavano accuratamente e si lasciano asciugare al sole; dopodiché si mettono in infusione in circa 1000 gr. di olio extravergine d’oliva, di buona fattura, cioè di certa provenienza biologica e di recente molitura (oppure, in una formula più agevole, 100 grammi di fiori o foglioline sommitali in 500 grammi di olio extravergine) . In una seconda fase, si sceglie un bel barattolo ermetico di vetro e si espone il preparato al sole per l’intera estate (o, almeno, 40 giorni di fila), avendo l’accortezza di mescolare l’infuso ogni tanto, agitandolo un po’. Altri, ancora meglio, suggeriscono di porre il barattolo al sole, avendo cura di sostituire il tappo con una garza o fine tessuto traspirante, onde evitare un’eccessiva e nociva fermentazione del macerato. Dopo la lunga esposizione, il preparato va filtrato in maniera minuziosa e accurata e poi conservato in contenitori di vetro opachi, in luoghi ben riparati, lontano dalle mani curiose dei bimbi e da fonti di calore o eccessiva luce. Fin dai primi giorni di macerazione, l’iperico sprigiona un caratteristico colore rosso che, secondo la tradizione, richiamava il sangue versato da San Giovanni quando fu martirizzato da Erode nell’assecondare i capricci e la volubilità della principessa giudaica chiamata Salomè. Altri sostengono che il rosso dell’unguento ricorda, addirittura, il mitico Prometeo condannato dagli dei a una punizione atroce: un’aquila gli rodeva quotidianamente il fegato che poi risanava e così via. L’olio, comunque, è considerato un toccasana nella fase di cicatrizzazione delle ferite. Tale impiego era già conosciuto fin dal tempo delle Crociate e l’intera pianta era, persino, considerato un antidepressivo straordinario in quel periodo ( tuttavia, anche oggi). Comunque, l’olio di cui parlavo prima, è un ottimo rimedio non solo a scopo vulnerario o cicatrizzante, bensì anche come antireumatico, antisciatico, antigottoso. Si usa con una leggera applicazione, frizionandolo delicatamente sulla parte interessata. In ogni caso, bisogna farne un utilizzo accorto e moderato poiché potrebbe causare, sulle pelli più sensibili o delicate, delle reazioni allergiche, delle negative interazioni con l’assunzione di taluni farmaci o una improvvisa fotosensibilizzazione. Insomma, occorre sempre molta precauzione nell’utilizzo dei preparati erboristici e, soprattutto, chiedere un previo parere agli esperti. Esiste anche un altro olio di iperico con aggiunta di vino bianco, ma il più gettonato è quello descritto prima. In conclusione, è proprio vero che l’iperico non finisce mai di stupire: un’essenza virtuosa, forse ancora poco valorizzata, ma ammantata di un arcano mistero che ci riporta nel fulcro della sapienza popolare, quella che, a differenza della nostra, aveva un rapporto privilegiato con la natura.
Salemi, 8 luglio 2020
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