La “Bianca russina” salemitana
La suggestione che proviene dalle piante è cosa, ormai, risaputa. Tuttavia, tale emozione, spesso, è irraggiungibile ai più, rimane custodita nelle segrete vie linfatiche delle specie floreali o vegetali e le storie che, invece, potrebbero narrarci sono davvero interessanti, curiose o, quantomeno, inedite. E, allora, si rimane basiti nel venire a conoscenza della latente simbologia della pianticella infestante che affonda, inesorabile, le radici tra i gerani o le rose del nostro giardino, si resta sbalorditi nell’ascoltare le leggende o l’insolita fama, racimolata nei millenni, che essa potrebbe snocciolare, descrivendo la sua remota comparsa sul suolo di Madre Terra. Ebbene, oggi, è la volta di una pianta assai nota dalle mie parti, ma anche nell’intero bacino del Mediterraneo. Avverto che tratterò di una splendida pianta rustica, però, eh, sì, c’è sempre un però, l’unica pecca è quella di essere un vera piantagrane per fiori, aiuole e campi. Eh, sì, proprio infestante ! Sto parlando dell’àcanto. Ne esistono due specie, almeno quelle maggiormente diffuse: Acanthus spinosus e Acanthus mollis. Il suo nome deriva dal greco ἄκανθος e, a quanto pare, aveva il significato di “fiore spinoso” (akè: punta; anthos: fiore) ed è appropriato perché l’acanto, nel suo vistoso e prosperoso sviluppo, presenta un lungo stelo centrale, che parte dalla base, fornito di piccole foglie spinose sotto le quali scaturiscono, in un singolare carosello cromatico, i particolari fiori dalla livrea bianca, con le caratteristiche striature color porpora. Detti fiori, assai appariscenti, ad un certo punto, mutano la loro foggia, evolvendo in una sorta di capsula che… esplode! Sì, proprio così, può capitare di udire, nella piena stagione estiva, un repentino crepitio e di assistere all’espulsione del “proiettile” vegetale, che viene lanciato a distanza di alcuni metri dalla pianta madre. Prodigi della natura, oserei dire! Ma a colpire, in misura maggiore, i nostri sensi è l’intero “assetto posturale” dell’acanto. E’, senza alcun dubbio, una magnifica pianta: grandissime e oblunghe foglie di un lucente verde intenso, con dei perfetti lobi seghettati, le quali si adagiano placidamente sul terreno, quasi a voler mostrare, a chiunque, la propria bellezza e simmetria. L’acanto più conosciuto è quello molle (Acanthus mollis) e la sua fama è giunta fino a noi, grazie anche ai modelli artistici che esso ha ispirato strada facendo. Ma ne parleremo più avanti. Tutta la pianta è piena di sali minerali, mucillagini, tannino e l’erboristeria, fin dalla notte dei tempi, la utilizza in varie preparazioni ad azione astringente ed emolliente. Il che, in questa precisa sede, non può essere oggetto di approfondimento per la precisa ragione che il mio sito non è una bottega officinale da remoto e non può prendere in considerazione alcuna indicazione di carattere terapeutico da distribuire a destra a manca del web e a chicchessia. Quindi, sorvolo volutamente sui dettagli botanici e sugli aspetti medicamentosi dell’acanto. Un aspetto ineludibile è, invece, come accennato poc’anzi, la notorietà dell’acanto che viene denominato in mille maniere, a seconda della collocazione geografica o della latitudine. Esso, solitamente, è chiamato àcanto nella parte continentale della penisola italiana, mentre, qui, in Sicilia, si ha l’imbarazzo della scelta lessicale: Alcanna, Brancursina, Brancussina, Catascia, Erva vavusa, Munachedda, Bianca russina, Vranca russina, Vranca ursina ecc. Insomma, chi più ne ha, più ne metta. Qui, a Salemi, uno dei nomi più comuni è sicuramente Bianca russina, per via dell’infiorescenza bianca con le invadenze di porpora delle brattee. L’acanto si trova un po’ ovunque, ma predilige le zone ombrose o i ruderi. Di frequente, lo ritroviamo a ridosso dei giardini fioriti, ai piedi degli alberi da frutto o nel bel mezzo dei fiori, come se volesse dimostrare (e ne avrebbe pieno titolo!), senza tema di smentita, la propria sontuosità vitale. E, a tale proposito, l’acanto ha goduto e gode, tuttora, di ottima reputazione nel distinguersi quale elemento decorativo ed ornamentale nelle realizzazioni vivaistiche dei grandi parchi o dei giardini delle austere ville private. Già Plinio il Vecchio ne accennava lodandolo e caldeggiandone l’uso nelle ville romane, a beneficio delle esigenti e voluttuose matrone. Fin dalla più remota era del passato l’Acanto è stato sempre apprezzato per la maestosità della sua cespugliosa, pungente, ma superba presenza. Di tale avvenenza si accorsero gli antichi devoti dell’immortale demone dell’arte, tant’è che la usavano come spunto creativo e la inserivano nelle loro sculture o nelle decorazioni di contorno, all’interno dei dipinti. L’acanto, così, assunse una consueta e consolidata simbologia: c’era chi intravedeva, nella particolare forma delle foglie, la rappresentazione stessa della vita o dell’amore viscerale per l’arte o, addirittura, durante l’ascesa ed affermazione del Cristianesimo, la sommità acuminata delle ampie foglie, di un verde abbacinante, venne intesa, in taluni casi, come simbolo della Passione di Cristo e con tutto il corollario di sentimenti umani che, nel bene e nel male, vi erano connessi: peccato, castigo ed afflizione fisica e spirituale; in altri, la Resurrezione. Poi, la simbologia contaminò il linguaggio che gli uomini cominciarono ad attribuire al fiore dell’acanto: esso era rappresentativo dello status e della ricchezza patrizia delle famiglie che lo curavano, mettendolo in bella posta nei loro sfarzosi e cromatici giardini, proprio a partire dall’epoca romana in poi, visto e considerato che la pianta e, soprattutto, la foglia carnosa, sovente, veniva richiamata nelle ricche vesti delle classi abbienti della società. Prova ne è l’abbigliamento della donna più bella e desiderata dell’antichità, una certa Elena (regina di Sparta e consorte di Menelao, poi principessa di Troia, dopo quell’arcinoto rapimento ad opera dell’impudente giovane principe troiano, di nome Paride) la quale si pavoneggiava indossando il peplo greco dai bei ricami che riproducevano proprio l’acanto. Oltre a ciò, quella crescita spontanea e la vigoria nel radicarsi agli umori della terra incontaminata del Mediterraneo, suggerirono di ritenere la pianta quale simbolo stesso della verginea purezza femminea. Ed è pure così che, tra le robuste radici nerastre dell’acanto, sembrano annidarsi taluni miti e storie di dei, ninfe, scultori ed amori mai sopiti che neanche potevamo lontanamente immaginare di scoprire in una pianta che, a primo acchito, pare insignificante perché troppo comune. Nella consuetudine, talvolta, del preconcetto emerge lo straordinario, verrebbe da dire. Ora, uno dei racconti che circolano sul conto del molle acanto riguarda una leggiadra fanciulla che viveva a Corinto. E’ Vitruvio a narrarlo. La giovane donna, promessa sposa e in procinto di convolare a nozze, improvvisamente si spense. La sua nutrice, avvilita dal dolore, in un gesto di infinita pietà, radunò i monili della ragazza in un cesto di vimini e li depose, dopo averli protetti con un embrice (tegola), sulla sua tomba. Ebbene, proprio sotto il cesto, spuntò una graziosa pianta di àcanto, che, nel suo graduale e rigoglioso sviluppo vegetativo, lo abbracciò, avviluppandolo con le luminose foglie che, quasi fossero rispettose della giovane vita spezzata, si piegarono mestamente verso il terreno, a causa dell’embrice che era stato posto a protezione del medesimo cesto. Dopo un po’ di tempo, per puro caso, il famoso scultore del V sec. a.C, Callimaco, rimase stupito della simmetria, della pacata compostezza e dell’armonia dell’impianto delle foglie dell’acanto che ricopriva la tomba della sventurata fanciulla. Ne fu talmente impressionato che decise, nella fase inventiva del capitello corinzio, di inserirvi la foglia della splendida pianta. E, come se non bastasse, ecco spuntare altra narrazione mitologica circa l’origine e nome della pianta. I Greci individuavano in Acanto una deliziosa ninfa di cui si era invaghito il divino Apollo. Tuttavia, non tutte le ciambelle riescono con il buco e non sempre gli dei venivano subitamente corrisposti o amati. Infatti, tra Apollo e Acanto non vi era affinità; insomma, si trattava di un amore non ricambiato ed Acanto cercava di evitare le pressanti lusinghe del poetico dio. Ad un certo punto, Apollo, in preda alla passione, decise di forzare la mano e di rapire, senza alcun indugio, la ninfa, pur di averla per sé. Però, la bella Acanto, accorgendosi del tranello tesole da costui, fuggì o , perlomeno, tentò di sfuggire alle sue grinfie e si oppose, affibbiando un dispettoso graffio sul volto del dio del sole. Purtroppo, i potenti sono potenti e pure prepotenti. Apollo montò su tutte le furie e si vendicò, tramutandola nella bella ma spinosa pianta che abbiamo finalmente conosciuto, una pianta, appunto, “baciata dal sole”.
Ancora una volta, pensavamo di avere a che fare con una pianta di poco conto e, invece, abbiamo scoperto il misterioso incanto del molle acanto.
Gioacchino Di Bella
Salemi, 20 giugno 2020
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