Cannalicchi di Salemi: i dolci natalizi di nonna Antonia
Dalle nostre parti, in Sicilia occidentale, parecchio tempo fa, il Natale non era il panettone.
Questa specialità non aveva ancora fatto breccia nei cuori di noi ragazzi del profondo Sud.
Certo, si consumava ben volentieri insieme a quel dolce, il pandoro, che, nella vivida fantasia adolescenziale, poteva somigliare ad uno strano Monte Bianco geometrico. Sì, d’accordo, ci si divertiva pure a spargere, sulla sua “vetta”, lo zucchero a velo così da “innevarlo“ come fa la neve copiosa, appena scesa dall’etere, sulle Alpi Lepontine. Ovviamente, era ed è una delizia per bocche assatanate di sfizi e vizi dolciari.
Ma, quando nonna Antonia tirava fuori ‘u tavuleri (1) , con largo anticipo sulle feste di fine anno, non c’era più storia. Altro che panettone e pandoro! Era come se si scontrassero in campo due squadre di calcio militanti in diversa categoria: l’una di serie A, l’altra di promozione. Nonna Antonia, di per sé, era LA SQUADRA leader del campionato, contro una scalcinata formazione di cadetti.
Al solito, alla fine dei giochi, i cadetti ne uscivano malconci. Sconfitta sonora, senza appello.
Eh, sì, era giunto il momento tanto atteso di “li cosi duci“ (2).
Natale era nell’aria e le vacanze scolastiche erano una certezza imminente. Così la mia nonnina affilava le “armi “ e si metteva all’opera per dispensare bocconi di felicità a grandi e piccini della famiglia.
I suoi occhi gentili, celati da ingiuste e spesse lenti, si tingevano, all’improvviso, di ambra e di miele come i dolci biscotti di cui stiamo parlando, lampeggiavano già di luminescente bontà.
La medesima bontà che alimentava il suo cuore. Alzatasi sul fare dell’alba, con lentezza metodica dovuta agli acciacchi della vecchiaia, si “facia li so sirvizzeddi “ (3).
Ad esempio, preparava quel brodino di gallina tanto prelibato da far resuscitare qualsiasi inappetente del mondo.
Riposava tanticchia (4), poi scattava l’ora ics.
Era arrivata l’ora di “li cannalicchi“ (5). Quindi, con una tenerezza spiazzante, indossava ‘u mirriuni (6) di viscosa con cui tenere a bada le ciocche argentee dei suoi lunghi capelli. Dopo di che si cingeva i fianchi c’u’ falari (7).
Predisponeva, allora, tutto l’occorrente : i proverbiali “ferretti“, ‘u cutidduzzu (8), ‘u sagnaturi (9) e i vari ingredienti della famosa ricetta, trascritta nella “libretta“ (10), custodita nel “portaservizio“ (11). Subito dopo, insieme a mia madre, iniziava il rito propiziatorio alla dea Cannalicchia sull’ara sacra del tavuleri (spianatoia di legno usata non solo per preparare il pane quotidiano, la pasta fatta in casa, ma anche per i celeberrimi “cannatuna“). Ora, per chi non lo sappia, ‘u tavuleri era un arnese ammantato di gloria domestica e di mito culinario. Commissionato, magari qualche secolo prima, al mastro artigiano del legno, all’epoca, più abile del paese, veniva conservato gelosamente dalle massaie salemitane. Guai a perderlo, iattura assicurata!
La sua superficie era talmente scura, oliata e levigata dall’uso quotidiano che poteva essere ben paragonata allo specchio magico di una fata. Anzi, a volerla dire tutta, il fatto di essere unto, logoro e liscio determinava maggior vanto e prestigio alla donna cui apparteneva. E ‘u tavuleri dei prodigi era uno dei superstiti dei giorni finiti, era oggetto di retaggio, perpetuava storie di inimitabili sapori familiari, sudore casalingo e smisurato cuore materno nell’accudire la prole.
Esso si lasciava in eredità, si tramandava di madre in figlia, sopravviveva nonostante tutto. In quel piccolo fazzoletto di assi consunte, chiamato tavuleri, le mani sapienti delle due donne plasmavano un bianco cratere.
Elementi primordiali, nati con l‘apparire dell’uomo, (acqua e farina di grano) componevano una materia che, sotto un baluginio di solerti dita, diventava arte domestica.
Ricordo, ancora, la nonna mentre pronunciava quella saggia frase: “Amunì, ora mittemuci ‘a saimi, accussì li cannalicchi vennu cchiù sgranulenti“ (12). Saimi (13), ficu sicchi (14), farina, acqua, marmuratu (15): arcane sostanze di una formula magica che suscitava, nella mente, un vocabolo, a caratteri cubitali : NATALE.
A grandi passi si approssimava la festa delle feste dell’anno. Ad un certo punto, la nonna si accingeva a “sciogghiri ‘a saimi ‘nni la farina” (16).
Poi, la materia informe e molle prendeva corpo, sembianza e colore.
La mano rugosa ma esperta di nonna Antonia, dopo una lunga fase di manipolazione dell’impasto, tagliava, farciva e quasi cesellava la pasta ottenuta. Il temperino affilatissimo, da lei impugnato, era come il bulino dell’incisore. Quanta rara maestria si sprigionava dai suoi gesti! I taglietti obliqui sulla frolla cedevano il passo ai capricciosi ghirigori fatti con l’indice e il pollice, con quella fluida naturalezza dei grandi maestri dell’arte culinaria. Ed ecco creata la “cannalicchia“, tipico dolce natalizio di Salemi (TP).
Nonna Antonia riusciva a modellare a perfezione la pasta, ridotta alla giusta consistenza.
Come si divertiva a comporre quella favola natalizia, animata da cavallucci, piccole colombe o da una miriade di bizzarri pesciolini! Nella trama della storia c’era un nipote che si stupiva del puntuale rinnovarsi dell’incredibile alchimia.
Le mani d’oro di nonna Antonia erano davvero capaci di generare delizie di ogni sorta, di destare dalla noia dell’oblio l’acquolina in bocca in quanto tale. Seguiva la cottura dei bei biscotti farciti di fichi secchi (preparati con cura dalla vecchietta nei caldi giorni d’estate nella campagna di San Giacomo) e con la candida veste di marmuratu (15).
D’un tratto, dal forno di nonna Antonia si spandevano ritmiche e ammalianti ondate di effluvi zuccherosi e fragranze danzanti di vaniglia. L’angusta baracca di via Giammuzzello 13, dove abitavano i nonni Maltese a seguito di quella tragica data del sisma belicino avvenuto il 14 gennaio 1968, diventava, per un giorno, la bottega del Re.
Le “cannalicchie“ erano così buone che si divoravano con voluttà inaudita, una dietro l’altra. Insomma, le scorte finivano in un batter baleno, da Natale a Santo Stefano.
E nonna Antonia, assai compiaciuta, firmava il lavoro con la bonarietà del suo sorriso, promettendoci di far riapparire, di lì a poco, come d’incanto, il portentoso tavuleri.
Note al testo
- Spianatoia di legno
- Dolciumi casalinghi
- Sbrigava le abituali accende domestiche quotidiane
- Un po’
- “Li/ le Cannalicchi” : sul genere, diciamo, che non si ha univocità: solitamente, si adopera il maschile, ma ho sentito nominare i biscotti salemitani pure al femminile. Pertanto, rispetto la par condicio.
- Largo fazzoletto che copriva il capo, foulard.
- Grembiule da cucina
- Temperino, coltellino affilato
- Mattarello da cucina
- Quaderno, taccuino
- Credenza dove si teneva il servizio da cucina (piatti, bicchieri, etc.)
- “Su, andiamo, ora mettiamo lo strutto, così i cannalicchi risultano più friabili e gustosi“
- Strutto
- Fichi secchi
- Glassa di copertura
- Amalgamare, unire gli ingredienti principali
Cannalicchi: la ricetta
A casa mia li facciamo così…
Ricetta dei/delle “Cannalicchi“ (sul genere, alcuni usano indifferentemente il maschile, altri femminile, ma, in verità, poco importa!) di Salemi (TP) per gentile concessione di mia madre, la signora Caterina Maltese, figlia della già citata nonna Antonia Maltese)
Ingredienti per la pasta (dose per 4 persone circa)
- 1 di farina (tipo 00)
- 300 gr di zucchero
- 300 di sugna (in siciliano, anche saimi), ossia strutto.
- 1 bustina lievito Pane degli Angeli
- 1 bustina di vaniglia
Acqua q.b.
N.B: in alcune varianti della ricetta, sono presenti, al posto dell’acqua, il latte e anche delle uova.
Lavorazione:
Sul tavuleri (1) creare (al suo centro) una conca (2) dove sistemare gli ingredienti, poi aggiungere gradualmente (e senza fretta!) alla farina la bustina di vaniglia, lo zucchero, il lievito, mescolare e cominciare a stricare (3) il tutto con la saimi (4). Continuare la stricuniata (5) generale, travagghiari (6) molto bene l’impasto e, come già detto prima, formare una sorta di piccolo cratere al centro della spianatoia. Usare un po’ d’acqua (Ehi, che state combinando! Ho detto poca!!) per amalgamare bene la frolla e per darle la giusta consistenza. La materia non deve essere né troppo molle, né troppa compatta così da permettere l’incisione della pasta e la conseguente realizzazione delle forme volute. La frolla, ripeto fino alla noia, deve essere scanata (7) a lungo e, se si vuole essere certi della duttilità ottenuta, è possibile passare l’impasto con l’apposita macchina per la pasta fornita di rulli. Successivamente, l’amalgama si ripone in una capiente pignata (8) o altro contenitore, si copre con un panno o strofinaccio e si lascia riposare per una notte intera. Il mattino seguente, togliere la pasta dal contenitore e, quindi, si provveda a tagliarla a listuneddi (9), lavorarla a mano, allungandola con il sagnaturi (10); poi, farcire questi tocchetti con i fichi secchi (nella variante dei cosiddetti “ramuzzi“ (11) usare solamente miele e mandorle). Si può anche ridurre la pasta in quadratini di una certa dimensione, poi incurvarli con le mani e mettere un giusto quantitativo di farcitura. Subito dopo, richiudere i lembi dei tocchetti di pasta appena tagliata e con apposito “cutidduzzu“ (12) tagliente comporre delle artistiche fogge a piacere. Preparare “li tigghi” (13), infornare a 180° C. per 20 minuti c.a, avendo, però, avuto l’accortezza di riscaldare preventivamente il forno. Qui va pure detto che, in passato, le donne erano solite utilizzare i tradizionali forni a legna; se avete tale opportunità, fatelo, senza indugi! Appena sfornate, decorare le “cannalicchie“ con marmuratu (14) cosparso di “diavolette” (zucchero variopinto a fini scaglie). Buon appetito! Provate per credere!
Farcitura:
Usare fichi secchi macinati (mi raccomando, rigorosamente siciliani e ultra biologici!) con l’aggiunta di zucchero, scorza d’arancia (di Sicilia!!), cioccolato fondente a pezzetti, mandorle, uva passa, pinoli, e noci.
Aggiungere un po’ di rum, maraschino e qualche pizzico di cannella.
Sulla quantità, regolatevi a piacere e con moderazione.
C’è qualcuno che integra il tutto con dei chiodi di garofano macinati nell’impasto.
Quindi, impastare con le mani e se il prodotto ottenuto risulta duro, versare un po’ di liquore per ammorbidire il composto.
Note:
- Spianatoia di legno
- Cavità
- Strofinare, sfregare.
- Strutto (il termine “Saimi“ probabilmente deriva dalla dominazione spagnola in Sicilia che lo chiamavano “Saim“)
- Operazione continuata dello strofinare
- Lavorare
- Manipolata con cura e a lungo
- Pentola
- Segmenti a forma di bastoncino o, in genere, pezzetti o listarelle
- Mattarello
- Rametti
- Temperino, coltellino.
- Teglie
- Glassa di copertura (composto ottenuto mescolando opportunamente albume d’uovo, montandolo a neve, con l’aggiunta di un po’ di succo di limone, zucchero a velo.
La consistenza del tutto deve essere strategica. E come fare?
Qui si vede l’abilità della “fornarina“: bisogna versarlo pian piano e valutare di conseguenza.
Il marmuratu deve essere di media densità, né troppo liquido, né troppo denso).
Ringraziamenti
P.S.: Ringrazio mia madre, Caterina Maltese e mia moglie, Enza Vanella, per la gentile collaborazione e la fattiva consulenza durante la stesura della ricetta.
Salemi, 29 dicembre 2018
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