‘U broru di pisci fujutu (cioè il brodo di pesce scappato)

Premessa

La cucina siciliana è, probabilmente, la più invidiata al mondo per tutta una serie di motivazioni storiche che ne hanno imbastito la trama, nel susseguirsi convulso dei secoli e ne fanno, adesso, la protagonista indiscussa delle tavole non solo nazionali bensì mondiali. Parlare della cucina siciliana   diventa, comunque, una singolare esperienza di ricerca culturale del passaggio degli innumerevoli dominatori che hanno calcato il suolo siciliano, delle loro inevitabili  contaminazioni culinarie che hanno impresso una sorta di marchio indelebile nelle preparazioni dei piatti divenuti, nel tempo, un’ineludibile tipicità. Tra i popoli che maggiormente hanno influenzato la nostra cucina non si può non annoverare gli Arabi, che, nel IX secolo, attuarono una suddivisione in tre grandi, chiamiamole così, province o distretti territoriali, che prendevano la denominazione di wali (dall’ arabo والي ), affidati al governatorato di un califfo ( guarda caso,  chiamato in arabo, wilāya , ﻭلاﻳـة‎). Tali grandi wali erano il Val di Mazara, il Val Demone e il Val di Noto. E proprio da questo calco, secondo l’interpretazione dello storico siciliano Michele Amari, sarebbe derivato il termine “Vallo”. Nello specifico, accennando alla cucina del Vallo di Mazara, a quanto sembra, il più esteso al livello territoriale dei famosi tre wali arabi, risalta subito all’occhio la differenza nella stratificazione e nella varietà logistiche delle pietanze e dei piatti. Sì, perché chi si sposta dalla costa verso l’entroterra nota che il pesce della “marina” che compone intingoli assai prelibati (dal couscus alla “ghiotta” ecc.) viene, spesso, sostituito dalla carne e da un certo strategico uso degli aromi, la cui base costitutiva dei piatti è, d’altronde, comune. E nella descrizione, seppur qui sommaria, delle origini delle ricette che, per noi, siciliani sono l’ABC della nostra alimentazione quotidiana e di cui, parliamoci chiaro, non vorremo mai e poi mai perdere memoria, interviene, quasi sempre, la straordinaria dose di versatilità, di estro creativo tra i fornelli, dell’arte del sapersi barcamenare, sempre e comunque, in qualsivoglia situazione culinaria, delle nostre brave donne, le quali considerano, tuttora, un’autentica grazia del Creatore il saper condurre, con ineguagliabile maestria, e tramandare i segreti della sicilianità in cucina. E sono le medesime magnifiche donne di terra di Sicilia che considerano, invece, come un’autentica calamità, la progressiva frequentazione dei punti commerciali da “cibo veloce” e d’asporto collettivo e banalizzante, da parte delle nuove e meno recenti generazioni, a discapito della doverosa valorizzazione dei nostri tesori culinari, dei nostri ingredienti, che gridano la propria origine biologica. Ma questa è un’altra delle solite e squallide storie, cui stiamo cedendo le nostre naturali difese, in quella fase che può definirsi di artificiale assuefazione ai frenetici ritmi vitali che, oggi, la società impone a tutti noi. Eppure, calarsi nella realtà variopinta dell’arte culinaria della nostra provincia (limitiamoci al Val di Mazara, per il momento!) è come immergersi in un micro mondo dipinto e descritto dal rosso acceso del pomodoro, dall’allegra famigliola degli aromi piccanti e sapidi e dalla fragranza unica che, all’anagrafe, conosciamo con il nome familiare di rosa marina (rosmarino), salvia, puddisinu (prezzemolo), basilicò (con l’accento sulla –o-), accia (sedano), pipareddu (pepe), mennuli (mandorle), e svariati cugini e prozii. Ed è un tripudio di cromie naturali che ci travolge i sensi e, a pensarci bene, ringraziamo Dio di essere nati in questo meraviglioso lembo di terra attorniata da un mare azzurro e incomparabile o, ancora, di averci consentito ritorno, dopo talune lunghe pause o attese altrove. A tale riguardo, non me ne vogliano coloro i quali emigrano dalla Trinacria e, per un motivo o per l’altro, si naturalizzano in altri contesti, dimenticano del tutto le proprie radici (ragazzi, non diciamo sciocchezze, NON SI PUO’!) e, poi, lontani da occhi indiscreti e nel privato dei loro inevitabili ricordi, sono rosi da una struggente nostalgia della Sicilia. E’ proprio vero, la Sicilia è una stupenda incantatrice e non si può non cedere alle sue lusinghe.  Comunque, l’uso amorevole degli aromi e la conseguente sapienza nell’utilizzo in cucina sono fattori che destano gradevoli sorprese o riscoperte di sapori che, probabilmente, avevamo solo lasciato lì, in un cantuccio della nostra memoria, fattasi, ormai, fin troppo sbadata. Altro aspetto che contraddistingue la cucina del mio territorio (e sto parlando del Val di Mazara) è la ricchezza degli aromi di cui si accennava poc’anzi e, nel contempo, la semplicità delle ricette che vengono trasmesse di madre in figlio (non vedo cosa ci sia di male, pure di padre in figlio!). Così si assiste ad una tradizione, ad una fortuna orale che, spesso, diventa scritta, delle ricette che confermano la fama e il retaggio di quei popoli che sembrano riecheggiare tra oli sfrigolanti, soffritti di aglio e cipolla, intingoli sublimi, pentole ribollenti e ricolme di pasta nostrana che reclama un condimento succulento. E la cucina siciliana diventa per tutti, isolani e forestieri, una dannata attrazione che altera le odierne diete ipocaloriche ma, che, per un momento, ci porta nel paradiso dell’esaltazione del palato. Tra fritture, salse, erbette sapide, pesti di aglio e puddisinu, brodi di pesce, arancine, sfincioni, pecorino, ricotta,  cannoli, cassate e cassatelle, ecco una ridda di voci che ci invita a provare le delizie di una tavola allegra e imbandita e di ricette che fanno onore alla latitudine di un Sud, dove il sapore è scritto con la esse maiuscola, e il gusto è gusto, punto! Sembra proprio di sentirlo quel vocio dei Romani, dei Greci, degli Arabi, e degli Spagnoli, intenti a banchettare. Ricordiamoci pure che l’uso della pasta fu introdotta in Sicilia e in Occidente proprio dagli Arabi, padroni per due secoli e passa del Mediterraneo, i quali, a loro volta, nei loro abituali contatti con l’Oriente, avevano imparato le tecniche di manipolazione della farina dai Cinesi o, addirittura, dai Persiani.   

 La ricetta del brodo di pisci fujutu 

Ora, a proposito di quel che si è appena detto, c’è una ricetta che mi incuriosiva e divertiva quando ero bambino e che la cara nonna Antonia (sì, proprio lei! La mia nonnina materna, quella, per intenderci, delle cannalicchie natalazie Cannalicchi di Salemi) preparava in una maniera divina e che, menomale, ho recuperato grazie a mia madre. Si tratta di un singolare brodo, di una facilità di realizzazione a dir poco sbrigativa, che viene conosciuto con un nome che lascia, a primo acchito, davvero perplessi. Sto parlando del brodo di pisci fujutu. Che?  Pisci fujutu? Sì, proprio così, il brodo del pesce che se n’è…fujutu, cioè scappato, dileguato, volatilizzato. Insomma, del pesce non v’è manco l’ombra. E, allora? Che brodo è, senza pesce? Di che si tratta? Diciamo pure che siamo alla presenza di un singolare inganno culinario. Ricordo le risate infantili e le mie battute di spirito quando quella santa donna di mia nonna Antonia mi chiamava, invitandomi alla sua tavola, dove già fumava il tegame che spandeva un odore di brodo, fatto come Dio comanda, e mi diceva con la sua dolce voce: “Veni ccà, nicareddu meu! Oggi, mancia cu niatri, fici ‘u broru di pisci fujutu spiciali!!” e con la mano scostava già la sedia per farmi posto. Ebbene, io, attendendo sospettoso sull’uscio e non gradendo, a quei tempi, gli intingoli di pesce, le rispondevo ”Nonna, ma chi dici? Mi vo’ pigghiari pi fissa? Chissu è broru di pisci!!”  “No, unn’è pisci! Stai traquillu! ‘U pisci sinni fuju!” riprendeva ancora più convincente, nella speranza di avermi lì, a tavola, con lei e il nonno Turi. “Seee, ma chi farfantarii sunnu? E dunni sinni ju ‘stu pisci? Pi casu, a farisi ‘na caminata?” ribattevo, ridendo a più non posso. “Niputi meu, eu unn’aiu curpa si ‘stu broru si chiama accusì! Si un’arresti cu niatri, ti ni penti!” rincarava la nonna. Ed, inevitabilmente, seguiva la fase, che, oggi, definisco dello stupido incaponimento bambinesco e ripetevo “Nooo! Ma quali fujuto e fujuto! Manciulu tu, nonna! Eu vegnu ‘a prossima vota”. A quel punto, la mia povera nonna desisteva, anche per non far raffreddare il suo sontuoso broru, che effettivamente, stuzzicava le mie narici e mi faceva tentennare sul da farsi. E quasi pentito di aver declinato l’invito, prima di uscire, la nonna provava l’ultima possibilità, l’ultima chance per vincere le mie resistenze e mi salutava, dicendomi in modo accorato “Va beni, vattinni, però viri chi stù broru è accusi bonu di liccarisi l’ugna” ma io già me n’ero andato e cosa mi sarei e ho perso! Meglio non pensarci, per favore! Tralasciando le amenità della memoria, va detto che il broru di pisci fujutu è una preparazione molto conosciuta nell’area mediterranea. A quanto pare, l’intingolo è antico quanto il mondo ma, probabilmente è giunto da noi siciliani grazie ai contatti con altre genti del Sud italico. E, forse, la paternità del brodo di falso pesce va attribuita alle popolazioni della costa napoletana. Difatti, ancora oggi, gli spaghetti al pesce fujuto sono un classico piatto, povero ma gustoso, delle città della Costiera Amalfitana e del Golfo di Napoli ed è apprezzato nella grande città partenopea, Ischia, Capri e Procida. Ed eccoci, di nuovo, nella storia che emerge ovunque, qui da noi, ad ogni piccolo ed insignificante riferimento: dal pisci fujuto possiamo sicuramente risalire ai contatti del popolo siciliano e alla sudditanza che esso ebbe, per lunghi secoli, sotto il Regno delle Due Sicilie e la casata dei Borbone. Nella innumerevoli varianti, è possibile notare la persistenza di taluni ingredienti che, in Sicilia, sono stati esclusi e mi riferisco, ad esempio, alle patate, peperoncino, finocchietto selvatico, uova o conchiglie di mare o il pane raffermo. Insomma, la frequentazione con questo piatto semplice, ma prelibato è, tuttora, assai ricorrente nell’intero sud della penisola italiana, da Marettimo a Procida, da Ischia a Bari e via discorrendo. Ma perche mai è stato denominato “broru di pisci fujutu”. Non è tanto l’aggettivo fujutu, di derivazione francese, a stupirci quanto, semmai, la spiegazione che ne possiamo dedurre. Inizierei con il proporre una parola chiave: gabbiani. In passato, nelle zone costiere, le mogli attendevano l’arrivo dei mariti, che facevano il faticoso mestiere del pescatore, e preparavano tutto l’occorrente per un buon brodo di pesce. Quindi, accendevano i fornelli, mettevano su la pentola, poi, raccoglievano le essenze necessarie e fondamentali alla riuscita del brodo: prezzemolo, cipolla, aglio ecc. Mancava solo il pesce fresco da immergere in quel recipiente che emanava già le note caratteristiche dell’intingolo culinario. E le donne, volgendo puntualmente lo sguardo verso quel preciso punto della baia o insenatura dove sarebbe passata l’imbarcazione dei mariti, si accorgevano all’istante dell’esito della battuta di pesca. Era il frenetico volteggiare e le repentine picchiate dei gabbiani sulla barca ad annunciare che i pescatori avevano fatto buona caccia. Al contrario, se i gabbiani si limitavano a scrutare dall’alto il peschereccio e non si producevano nelle consuete acrobazie di volo, significava che la battuta era andava a vuoto.  In quest’ultima evenienza, le mogli non si perdevano d’animo e con buona lena e adoperando tutta l’esperienza maturata tra i fornelli, trasformavano quel brodo vegetale in un ottimo surrogato della zuppa di pesce. In taluni casi, nei paesi che si affacciavano sul mare, il trucco veniva accentuato, buttando lestamente dentro la pentola, qualche sasso di mare o qualche uovo spaccato nel preparato che, poi, si raggrumava e riusciva a simulare alla perfezione l’aroma del pesce. La consolazione dei mariti delusi dalla pesca fallita era assicurata con un piatto squisito di pasta al pesce per l’appunto …scappato! Nell’entroterra, invece, a differenza di oggi, spesso il pesce non arrivava sulle tavole, a causa di difficoltà di conservazione del prodotto o per sopravvenute o avverse condizioni meteorologiche e, pure in questo caso, era l’estro creativo delle donne in cucina che sopperiva alla carenza o totale mancanza dell’ingrediente principe e ci si contentava benissimo del buon pesce fujutu. E nessuno si lamentava del trucco! Adesso, sull’onda del ricordo e della ricorrente riproposizione materna del piatto, che, ogni volta, mi delizia e sorprende per la bontà, ho deciso di lasciarne qui traccia e, per prima cosa, vi propongo la ricetta in lingua siciliana. Poi seguirà la versione in italiano.

Broru di pisci fujutu

Amunì, ora, t’insignu comu si fa ‘u broru di pisci fujutu.

Pigghia l’agghia, la minuzzi fina fina e la ecchi ‘ni lu tianu, mettici n’anticchia di ogghiu, un pocu di sali. Mi raccumannu, l’agghia hav’a esseri pi quanto siti (du’ spicchia, si siti dui). Dunni eramu arrivati? Ah, sì, eccu! Poi ci metti la cipudda, tagghiata, puru idda, fina fina, e ‘ncuminci a friiri tutti cosi.’Nsumma l’h’a fari ‘ngranciari n’anticchiedda. Doppu, ci cali li pumaroru pilati, li fai suffriiri un pocu, ma l’hà fari strinciri, picchì si la fai lenta lenta, sapuri un ti nni porta! Stamu attentu, hav’a esseri asciuttulidda, ma senza falla appizzari. Poi, mettici l’acqua pi fari ‘u broru (dui o tri bicchieri, si siti dui). Falla cociri, assemi cu l’agghia e lu pumaroru finu a quannu vugghi. Gràpiti l’occhi, semu sempri dda! Si  la fai a la prescia prescia, un cunchiuri nenti! Allura, continuamu ‘u discursu: cumincia a pigghiari li verduri (accia, basilicò, puddisinu) e ci li cafuddi, però senza minuzzalli e li fai vugghiri ancora finu a quannu pigghia ‘u giustu sapuri. Doppu ch’è tuttu beddu cottu, pigghia e ci metti l’agghia pistata (m’arraccumannu! Tu ha fari, sparti, un pestu riccu, ni lu murtareddu, e t’h’a regulari ni li dosi a secunnui quanto siti. ‘U capisti?) Ora un’hai a fari autru chi darici ‘na bella riminata. Ah, mi stava scurdannu… si lu vò fari cchiù sapuritu, tuttu ‘stu conzu, cocilu pi ‘na bona mezzurata. E finiu ccà! Ti pari chi ci vulia, l’arti di pinna?

 P.S.

Avete bisogno della traduzione? Fatemelo saper o contattatemi all’indirizzo email indicato nel sito.     

Pasta con il brodo di pesce fujutu, ehm…pardon, scappato.

Ingredienti per 2 persone:

  • 180 gr (o meno, dipende da voi!) di pasta spezzettata
  • olio extravergine di oliva
  • 2 spicchi di aglio
  • mezza cipolla circa
  • 150 gr di pomodori pelati (preparati con olio di gomito, evitate, ma non so se riuscirete nell’intento. Me lo auguro!)
  • 2 o 3 bicchieri d’acqua 
  • prezzemolo, sedano, basilico qb
  • sale qb 

Preparazione

Tagliate finemente la cipolla e gli spicchi d’aglio e metteteli a rosolare in un tegamino, preparando un soffritto con l’aggiunta dell’olio EVO. Aggiungere un pizzico abbondante di sale. Fare imbiondire l’aglio e la cipolla, quindi aggiungere i pomodori pelati e lasciare cuocere il tutto, in modo da approntare un sugo abbastanza denso e sapido e ristretto. A questo punto, versare due o tre bicchieri d’acqua per preparare la base del brodino. Portate il tutto ad ebollizione, ma a fuoco moderato. Preparate le verdure (sedano, prezzemolo, basilico) e inseritele intere nel brodo e fatele insaporire un po’ nel bollore. Nel frattempo, preparate un bel pesto a parte, anche senza pomodoro, con uno spicchio d’aglio, ecc. Dopo almeno 10 minuti di ebollizione, unite il pesto direttamente al brodo, amalgamatelo bene. Per una cottura ottimale, cuocete il preparato per circa 30 minuti complessivi.   

Note dell’autore

La presente ricetta è la più semplice delle innumerevoli varianti locali o regionali. Ovviamente, vige l’usanza della personalizzazione ed ognuno è libero di aggiungere, a seconda degli usi o dei retaggi familiari, altri ingredienti. La mia versione è quella già sperimentata, che ho ricevuto dalle mani di mia madre ed è ottima. In ogni caso, provatela, ne vale la pena!

Salemi, 3 gennaio 2021

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