Cronaca dalla zona rossa di Salemi: 45° giorno

Cronaca dalla zona rossa di Salemi: 45° giorno

Sento l’esigenza di scrivere un po’ a briglia sciolta. Lo trovo un esercizio diversivo per scaricare la tensione che si deposita a sottili strati sui pori dell’epidermide. Debbo pur staccare, seppure temporaneamente, dall’avviluppante didattica a distanza. Sono troppe le ore trascorse a pochi centimetri dallo schermo del Pc. che ti ammalia. Potrebbe configurasi come altro caso di distanziamento non umano, bensì tecnologico? Eh, già l’arcinoto distanziamento che, nel giro di due mesi, ha praticamente annullato quella carica emozionale molto cara, in special modo e senza nulla togliere agli Italiani continentali,  a noi insulari. Niente calore umano nei quotidiani rapporti sociali, è la parola d’ordine che impareremo da ora in avanti. Ma la generosità di cuore ci appartiene come popolo del Mediterraneo, nulla potrà portarcela via, la nutriremo gelosamente nelle nostre vene, nel nostro sangue. Ho gli occhi rossi, dopo le intense sessioni dedicate alle  video lezioni, l’unico modo per raggiungere i miei cari alunni della Media “Capuana” di Santa Ninfa. Li trovo bene, nonostante il repentino distacco da una normalità di vita scolastica. Che bravi ragazzi, mi rincuora vederli e sentirli. Insieme siamo stati catapultati, come del resto i 7 miliardi circa di popolazione mondiale, nella trame di un drammatico evento epocale che sarà menzionato sulle pagine di Storia e che altri studenti, dopo di noi, potranno leggere e studiare. Ma andiamo avanti, senza indietreggiare. Ebbene, dicevo prima, la didattica a distanza, esperienza di per sé esaltante e, per certi versi, indispensabile, vista l’abietta situazione, poteva, anzi doveva costituire, come già ripetuto altrove, una semplificazione dei processi formativi, al tempo dello stramaledettissimo Covid 19,  e, invece, sta trasformandosi in un tormentone, in un ulteriore assillo che si va ad aggiungere ad altri ben più urgenti per le famiglie degli alunni impreparate. D’altronde, per i docenti, essa diventa una corsa ad ostacoli alla volta dell’ormai obbligatorio adeguarsi dell’insegnamento alle norme del distanziamento sociale. Tuttavia, i punti nevralgici si concentrano su due abusati vocaboli: device e rete Internet. E, proposito, di device, il  mio smartphone,  appoggiato sul divano, mi lancia uno sguardo in tralìce. So di che si tratta: è sofferente, ha subìto una mutazione di status: da dispositivo telefonico, per carità multitasking, a tamburo rullante. Sì, si è trasformato in tam tam polifonico, a più voci. Ogniqualvolta, prendo in mano il mio IPhone, corro il rischio di scottarmi. Un cellulare (chiamiamolo pure così, tant’è!) bollente di messaggi, chat, Whatsappate, mail, chiamate, avvisi vocali, notifiche. E che diamine ! Una breve pausa e il piccolo di Apple ricomincia a vibrare e  a vomitare Whatsappate, mail, squilli di suonerie inverosimili, circolari, comunicazioni, Messengerate in un flusso oceanico. Questo dannato periodo ha sospinto, in maniera paurosa e convulsa, ognuno di noi ad accelerare le conoscenze, peraltro provvisorie, se non, addirittura, precarie, sull’informatica, sulla digitalizzazione delle forme e modalità della comunicazione. Adesso, sulla bocca di noi umani, costretti in casa da un virulento virus, ecco spuntare, come per incanto, i termini dell’ipertecnologia, anglicismi puri. Per noi docenti, che abbiamo ricevuto il rinnovo battesimale dell’e-learning a far data dal 5 marzo scorso, l’interazione verbale, l’informazione didattica sono state, a maggior ragione, improntate sulla scorta dei tanti report, screenshot, live, video chat, classroom, tutorial e via discorrendo con la naturale aggiunta del monotono intercalare dei nomi, all’improvviso, celebri, quali Google Meet, Zoom, Jitsi Meet ecc. ecc.  Così, ci sentiamo, solo per averne appena sperimentato la portata e l’efficacia nell’economia del discorso o dello sproloquio, all’istante,  esperti informatici. In queste grandi novità dell’educazione, arranco come posso anch’io; di certo, non vanto ultraconoscenze specifiche di ordine tecnologico o informatico. Faccio la mia parte, come posso e non mi lamento, vado avanti con tutte le incognite del caso. Non ci si può lagnare di nulla quando là fuori c’è, tuttora, un’offensiva in atto, eserciti di uomini e donne straordinarie che  lottano come leoni fino allo spasimo, mentre si consuma una tragica decimazione, morti e morti che non si contano più. Il focus attuale è l’emergenza sanitaria, che ci riguarda, nessuno si senta escluso, il resto e relativo, opinabile. Ora, mi stropiccio i bulbi oculari, lo so, non dovrei. Qui seduto al mio solito posticino appartato, che ho eletto quale angolo di possibile relax (se si può !), in questa sorta di perentoria e preferibile prigionia,  rifletto su quel che accade ed è accaduto o, ancora si protrae misteriosamente, fin dalla prima decade di marzo o, forse, prima. Sento tubare dei colombi, pasciuti, impettiti, sui tetti delle case del mio quartiere, in una delle colline che attorniano il centro storico di Salemi. Lo chiamano ‘u paisi novu, il nuovo paese ricostruito dopo il disastro tellurico del 1968. I colombi fanno a gara nello scambiarsi effusioni d’amore interessato, nella raggiante luminosità del pomeriggio. Stanno pensando, ma seriamente, a come costruire il nido cespuglioso, di una semplicità invidiabile, dove covare le uova e far scovare la nidiata implume, tubano in un vorticoso cerimoniale di curucucu, curucucu, curucucu; se ne infischiano del Coronavirus, il loro volo libero ed impacciato sembra travalicare la brevità del giorno. Laggiù, invece, un improvviso e sdolcinato miagolio prolungato, quasi fosse la voce di un bambino appena svegliatosi, di  due gattoni arruffati che inarcano il dorso, fronteggiandosi da nemici per accaparrarsi lo spazio dove scorrazzare e la gatta dagli occhi blu, a pochi palmi dai contendenti, pare un chiaro annuncio al vigore della stagione fiorita che, ogni anno, si rinnova. E dal terrazzo della mia abitazione, gli elementi naturali che inglobo, inquadrandoli con la vista, ossia i colombi, i gatti che già sono ai ferri corti, il giallo immorale delle enormi margherite spontanee, urlano al silenzio sepolcrale piombato inaspettatamente su noi uomini del 2020, rintanati come talpe, nel chiuso angusto delle nostre stanze. Tali elementi irridono la finitezza dell’uomo. Sì, l’uomo, cui è bastato un breve lasso temporale per sprofondare negli abissi delle incertezze primordiali, delle idiosincrasie al vivere comune, nelle paure ancestrali, nelle fragilità esistenziali, che, egli, purtroppo, non è mai stato capace di debellare, in modo radicale, dalle proprie fibre. Pare sia passato un secolo dalla nostra ultima sortita fuori casa, la ruggine ha fermato le lancette dell’orologio dell’umanità. Non so che vita ci si potrà aspettare dopo la fine della fase 2 del lockdown, probabilmente non mi va neanche di soffermarmi su tale aspetto, non voglio pensarlo, ma, la verità è quella di non crearci false illusioni. Ci riprenderemo dallo spauracchio, non v’è dubbio, almeno lo speriamo tutti. Tuttavia, a lungo conficcata come un aculeo velenoso nello stinco, rimarrà la fifa di non sopravvivere, di non farcela al minimo sopravvento di una febbre alta. Intanto, nel 45° giorno di confinamento in casa, in questa zona rossa di Salemi, immobile ed inondata di ineffabile luce siciliana, cerco di raccontare a me stesso altre storie a lieto fine, mi alzo e mi distraggo, inseguendo con il girovago pensiero, i bei ricordi del passato.

Gioacchino Di Bella 

Dalla “zona rossa” di Salemi, 18 aprile 2020

45° giorno di “confinamento” in casa

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