Cronaca dalla zona rossa di Salemi: 52° giorno

Cronaca dalla zona rossa di Salemi: 52° giorno

I canguri, in Australia,  scorrazzano nelle vie delle immense città, i caprioli e i cerbiatti, poco timorosi, annusano gli usci delle dimore nei pressi di Londra, mamma papera guida, imperterrita, la sua allegra famigliola di paperotti lungo le strade deserte di Posmon, frazione di Montebelluna (TV), procedendo, indisturbata, quasi contenta di non avere a che fare con l’intenso traffico che, di solito, fagocita ed assorda lo spazio. E, ancora, le volpi, che, a caccia di rifiuti commestibili e scarti di cibo fin troppo eccedente, prendono possesso della notte urbana italiana e, con tronfio incedere, non indietreggiano, neanche di un centimetro, all’approssimarsi delle volanti della Polizia, che perlustrano, con zelo, i quartieri delle periferie immerse in un soporifero ed inconsueto torpore. Sono solo alcune, quelle appena elencate, immagini di un mondo che sembra andare avanti alla rovescia. La fauna selvatica, vissuta, finora, ai margini dell’opulenta città, si riappropria dei contesti che, un tempo, furono naturali, prima dell’avvento e dell’invadenza antropica. Già l’antropizzazione selvaggia e scriteriata che ha devastato zone umide e biodiversità, in nome ed a vanto della propria espansione, come probabile ed univoco modello di vita per le generazioni umane. Ma, alla prima occasione e che ghiotta occasione quella determinatasi dallo scatenarsi, a macchia d’olio, della pandemia Covid 19, la natura dichiara all’uomo la propria supremazia. Anzi, la declama con un sussurro sommesso, potente: “Punto e basta, non c’è storia, vinco io, tu sei un essere vulnerabile, debole, fragile”. Ecco, La natura che si riprende, lemme lemme, ciò che l’uomo, ingrato e malandrino, le ha sottratto con qualsiasi sotterfugio o inganno di sorta. Sta accadendo qualcosa di prodigioso, e per noi inaspettato, alla natura che sta lanciando dei chiari segnali di non belligeranza alla sciocca comunità. “L’uomo impari, ma in fretta, la lezione,” sembra suggerire “ritorni in sé stesso, ritorni ad essere uomo rispettoso delle leggi eterne che hanno governato il Pianeta Terra, fin dall’origine dei tempi”. C’è da chiedersi se ognuno di noi abbia ben compreso come sia assolutamente deleterio asfissiare, deturpare, dissipare l’immensa ricchezza che abbiamo a portata di mano. Forse, una possibile inversione di marcia potrebbe essere fattibile. Giusto adesso, mi sovviene un dubbio, un tarlo che gira nella mia testa da parecchio tempo a questa parte. E se, un giorno, forse per noi irraggiungibile, si scoprisse che questa dannata pandemia fosse stata perpetrata da qualche fantomatico gruppo di attivisti ultra green, di ecologisti incalliti, stufi di commiserare il rantolo dell’agonia del nostro pianeta e, perciò, intenzionati a cambiare il corso già tracciato di un disastro planetario, al fine di garantire, perlomeno, aria pura ai futuri cuccioli dell’uomo? Sarebbe interpretato, dai superstiti al Covid 19, alla stregua di un clamoroso boicottaggio di un gruppo di fanatici ambientalisti, disposti a tutto pur di salvare la Terra, ormai irrimediabilmente malata; insomma, un folle progetto di un suo salvataggio in extremis, però costato milioni di vite umane. Intanto, a pensarci, bene, con il lockdown, la Terra sta smaltendo la sbornia, sta pulendo i propri polmoni, sta riprendendo fiato e, quel che è positivo, ossigeno! Come la mettiamo, bel busillis, vero? Qui, sul terrazzo di casa mia, nel cinquantaduesimo giorno di volontario isolamento, riscopro la voce salvifica della primavera. Ogni creatura o entità naturale sembra sia pervasa da una speciale fibrillazione vitale. Noto, con mio disappunto, che i miei poveri occhi si sono disabituati al fulgore della luce siciliana. D’un tratto, ho come l’impressione di piombare in un’istantanea fotosensibilità ai miei luoghi. Troppi giorni recluso in casa, ma il sacrificio era reso necessario dalla triste emergenza che riguardava e, tuttora, tange Salemi. Ritengo sia opportuno, fin d’ora, modificare le nostre radicate abitudini e riadattarsi ad una convivenza semisociale che sarà alquanto dura da trangugiare. Piano piano, qualche autovettura comincia a circolare in sordina, quasi con andatura sospetta. Infatti, è come se una cappa di ostile diffidenza, che aleggia sulle nostre teste, stordite da cicli sballati di sonno e veglia, non abbia alcuna intenzione di sloggiare il campo. Uscire fuori di casa pare un evento divenuto insolito, vietato, quasi ci fosse qualche delatore, lì dietro l’angolo, a registrare le nostre generalità e a denunciarci per non aver ottemperato ai nostri obblighi di estraniamento sociale. In realtà, la gente appare stremata dalla reclusione forzata nella confortevole prigione che è la loro casa. Perciò, nonostante le raccomandazioni e le sollecitazioni a non esagerare nelle uscite per motivi futili o per esiguità di spese quotidiane, le maglie paiono allentarsi a vista d’occhio, le sortite all’esterno si susseguono, seppur a conati alterni, quasi si fosse annidato, negli stanchi individui, anziché la fobia d’infettarsi, l’imprudenza controllabile del domani. Dal canto mio, ho rispettato le direttive imposte, infischiandomene delle superficiali congetture sul virus che, secondo alcuni, ha le ore contate. Purtroppo, l’illusione di debellare il Covid 19, in quattro e quattr’otto, ci può giocare bruttissimi scherzi; quindi, non abbassiamo la guardia!  Tuttavia, malgrado le fibre dei corpi fremano per uscire allo scoperto e benché le scappatelle possano essere un po’ più evidenti, il silenzio che incombe ovunque è davvero enorme, ha una sua mole gigantesca. Ora, non prendo quasi mai a prestito citazioni illustri a corroborare il mio pensiero, ma, stavolta, bussa alla memoria, insolente come la voce stridula di talune zitelle, una frase tratta da un celebre romanzo, dove il portoghese Saramago, profeticamente diceva “Un silenzio che sembrava occupare lo spazio di un’assenza, come se l’umanità, tutta, fosse scomparsa […]” Sono uscito nelle occasioni sporadiche comandate (spesa settimanale), ma la sensazione, fondata ed inquietante, tanto da farmi correre un brivido freddo lungo la schiena, è quella di trovarsi in una città sopravvissuta ad un terribile disastro nucleare, tale da costringere la popolazione a condurre un’esistenza murata, da larva. E dalle pochissime persone in cui t’imbatti, ne ricavi l’esperienza scioccante di un distacco inesorabile con l’altra parte del mondo che ti guarda, a sua volta stranita, da dietro una mascherina FFP2. Sembra di essere calati giocoforza nei panni di protagonisti stralunati di un film catastrofico, in un set surreale diretto da Roland Emmerich. Poi, come se non bastasse, qualcuno si ostina a chiamare, in modo efficace e consono, questo nostro confinamento (ha una gradazione fonetica elegante, la parola confinamento!)  con il vocabolo “quarantena”. Esso deriva dal veneto ”quarantina”, ossia il periodo di isolamento di quaranta giorni che era tassativo alle navi, da cui, specialmente nel XIV secolo, si veicolava la  brutta bestia denominata peste. Così, le navi erano obbligate alla fonda, molto lontano dai porti, come misura precauzionale contro la terribile epidemia che falciava anime senza requie. La quarantena è un termine assai pertinente in questo preciso caso, ma incute paura, rimbalza ovunque il terrore del possibile contagio. Ebbene, qui, a Salemi, in questa luminosa primavera funesta, sebbene si sia verificata la dozzina di casi di positività al Coronavirus, non ci sentiamo come degli appestati, pur se certe voci esterne alla zona rossa salemitana, con stilettate immorali di beffarda ironia, ce lo vogliono far credere. No, non lo siamo, appestati. Siamo gente che ha voglia soltanto di scrollarsi di dosso la minaccia di una pesante spada di Damocle, di relegare in un cassetto ben sigillato della memoria, un brutto incubo, come, del resto, ha diritto di fare l’Italia intera, da Bergamo a Salemi, da Pantelleria a Courmayeur e la stragrande maggioranza dell’umanità.

Gioacchino Di Bella

Salemi, 25 aprile 2020

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