Uno degli elementi tipici del nostro habitat insulare è, senza alcun dubbio, costituito dalla spinosa presenza dei fichidindia. Sì, proprio i pittoreschi Fichidindia, con le loro buffe pale piene di aculei, (in realtà, trattasi di “cladodi”) che, nel tempo, sono diventati il sinonimo stesso (talvolta, fin troppo ostentatamente oleografico) del volto arcaico della nostra Sicilia. Eh, i pregiudizi cosa sono!! Ciononostante, guai a non citarli se si parla dell’area del Mediterraneo meridionale e della nostra amata “Terronia” (poco simpatico, sgradevole e sottilmente denigratorio neologismo che ci è stato affibbiato da quei burloni abitanti del Nord Italia). Ma lasciamo stare. Il Fico d’India (o Ficodindia) è una graziosa ed imponente pianta succulenta che appartiene alla famiglia delle Cactacee e, nello specifico, al genere Opuntia. E, in effetti, il suo nome botanico è Opuntia ficus – indica. La zona nativa è il lontano Messico. A tale riguardo, basti pensare alla familiarità della pianta presso gli Aztechi, che la conoscevano benissimo e la denominavano “Nocthli“; probabilmente da ciò deriva l’etimologia dell’antichissima Città del Messico che, durante la loro presenza nell’America Centrale era stata appellata Tenochtitlan, cioè, letteralmente, “Ficodindia su una rupe“. Comunque, la sua diffusione si deve a quel grande e coraggioso navigatore che reca l’altisonante nome di Cristoforo Colombo, il quale la portò, nella penisola iberica, nel 1493, ossia al ritorno dalla sua prima e memorabile esplorazione nelle cosiddette Indie che, poi, Indie non erano affatto, bensì le isole dei Caraibi, nel Golfo del Messico. Ora, come già detto poc’anzi, l’Opuntia non è nata nel Sud italiano, anzi non ci azzecca un bel niente, ma si è perfettamente adattata e, quindi, diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo (Calabria, Sicilia e isole contigue, Puglia, Sardegna, coste dell’Africa “bianca”) ed oltre (California, Sudafrica ecc.). Beh, a pensarci bene, il Ficodindia ha fatto la sua apparizione anche nel Settentrione del nostro Paese, probabilmente per via del famigerato Global Warming e sulle rive degli specchi d’acqua lacustri prospera, diciamo, abbastanza bene. Quando si dice che bisogna annullare il divario ultracentenario tra le varie parti dell’Italia…pure le piante lo gridano!! Qualunque sia la sua collocazione geografica, l’Opuntia produce frutti, a parer mio, prodigiosi che hanno una polpa carnosa ricchissima di minerali, quali, ad esempio, calcio, fosforo, vitamina C. Poi, esistono tre cultivar, l’una migliore dell’altra: Sulfarina (gialla), Muscaredda (bianca), Sanguigna (rossa). Le gustose bacche, piene di spigolosi semi, hanno proprietà astringenti e sono arcinote pure per gli effetti collaterali sull’organismo, quali, ad esempio, la possibilità di incappare, se consumate smodatamente, in fastidiose occlusioni intestinali. Tuttavia, la pianta faceva parte del vissuto dell’antica civiltà contadina. I vecchi “viddani“, che nel rapporto con la natura erano davvero virtuosi, sapevano estrarre la polpa contenuta nelle “pale” , stracolma di mucillagini, al fine di curare, con estrema semplicità, le ferite. Insomma, un ottimo rimedio cicatrizzante a portata di mano e a costo zero. C’era una particolare attenzione all’ambiente e alle specie vegetali che costituivano una preziosa risorsa alimentare per l’intera famiglia patriarcale di una volta. Così, con tale spirito, gli stessi contadini praticavano una sapiente coltivazione della pianta per ricavarne un prodotto superiore. Tale cura verso il Ficodindia si esplicava con apposite potature, messe a dimora e riproduzione a talea, ma contemplava un singolare rito, quasi fosse una cerimonia di propiziazione che si doveva attuare in un preciso giorno dell’anno, subito dopo l’ingresso del solstizio d’estate. Si trattava della straordinaria ricorrenza della nascita di San Giovanni Battista che ricadeva e ricade nel magico giorno del 24 giugno, una singolare data che si caricava di arcani e oscuri significati sacri e profani, capaci di generare forza e benefici sovrumani in ogni cosa del Creato. In questo preciso momento dell’anno era necessario intervenire sull’Opuntia con la famosa scozzolatura o, come si dice dalle mie parti, “scuzzulunata di li ficudini”. In che cosa consisteva? Ebbene, non era altro che la meticolosa bacchiatura, con lunghe pertiche, delle bacche (non dimenticando di staccare anche i giovani cladodi) della “prima mano”. Era un modo per ritardare la successiva fruttificazione: i “ficudini” della prima fioritura ufficiale si spostava verso luglio e settembre, mentre quelli della seconda, la più importante per qualità, potevano essere colti tra ottobre e dicembre. Ovviamente, in linea di massima. In effetti, i fichidindia della seconda fioritura risultavano più grossi, un po’ rustici, ma maggiormente carnosi e sani. La scozzolatura dei fichidindia, quindi, è da sempre un’antica pratica volta ad esaltare la qualità dei fichidindia. Questo rituale è giunto fino a noi ed oggi la scozzolatura viene fatta non più con lunghi bastoni ma manualmente in modo tale da non danneggiare il delicato tessuto delle pale dell’Opuntia. Allora, è meglio munirsi di specifici guanti da giardinaggio (ottimi quelli utilizzati per le rose) e staccare delicatamente le bacche. In ogni caso, mi raccomando, non usate come ho fatto io, apposta e maldestramente, nel video, il raccogli frutta per fichidindia!
Nota dell’autore
Il breve filmato è stato inserito proprio per evidenziare i danni di una sommaria e frettolosa “scuzzulunata“. Il risultato finale è assicurato e il gusto ne trarrà vantaggio. Buona scorpacciata, ma non esagerate!
Salemi, 3 luglio 2019
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