Sicilia occidentale, 14 gennaio 1968 : una data fatidica per il Belìce che conobbe la fulminea tragicità di un evento sismico che mise a dura prova la tempra di tantissima brava gente, spesso fiaccando gli animi e seppellendo la speranza di una nuova vita migliore. Un tremendo terremoto, quello del Belìce, che significò un lunghissimo strascico di sofferenze materiali per le popolazioni sopravvissute all’insania della terra. Tra lungaggini e tiritere della politica, faccendiera ed inetta, tra intrallazzi e dilazioni di chi, deputato, a qualsiasi titolo, alla gestione dell’emergenza e della “cosa pubblica”, vide lievitare gli introiti personali e i facili guadagni, arricchendosi a dismisura, ai terremotati sessantottini furono assegnati gli alloggi provvisori che, purtroppo, si trasformarono in dimore permanenti, nel giro di pochi anni a venire. Speculatori spregiudicati e poveri diavoli, soldi a palate e sacrifici, boriosa ricchezza e l’abisso dei “disgraziati”, un proliferare di sfarzose ville e l’insistenza di quelle disumane baracche. Pure questo fu la brutta faccenda del terremoto nel Belìce. Ciononostante, fuori dalla folla degli avidi profittatori, c’era pure qualche benefattore che tentò, inutilmente, di cambiare il corso delle cose. E così maturava l’immane sventura di intere famiglie rimaste sul lastrico o quasi. Anche la mia Salemi ebbe a provare tale indicibile esperienza umana. Un’intera generazione crebbe, per decine di estati afose, tra le lamiere infuocate delle baracche e con gli orecchi assuefatti allo scroscio impetuoso delle intemperie invernali che imperversavano sul tetto delle casupole che, nel frattempo, avevano formato i vari e vasti “rioni” di baraccopoli : Cuba, Giammuzzello, Gessi, “Favarella”. Io c’ero e, a distanza di 51 anni, non è così semplice riesumare la memoria e sanare una ferita che, probabilmente, mai si rimarginerà. Ebbene, non è facile ripercorrere il dramma vissuto dopo il sisma del lontano ’68, verificatosi nel Belice e in una città come Salemi e, soprattutto, descrivere la situazione reale di quegli anni e la settaria, chiusa, società salemitana, ben propensa a discriminare i baraccati, quasi ad emarginarli, ad etichettarli con un falso marchio d’ignominiosa inferiorità. Eppure, il quadro viene egregiamente tratteggiato da Alberto Castelli, un salemitano naturalizzato a Roma, nel suo singolare romanzo “Maririna” prendendo spunto da una storia familiare che può attagliarsi a tante altre famiglie salemitane colpite al cuore dal sisma. Ora, per questa sua minuziosa indagine del contesto, mi sento di ringraziare l’autore del libro sopracitato, con un moto che sgorga dal profondo del cuore. Sì, quella distorta immagine affibbiata dai coetanei alla protagonista, Maria, era il preconcetto che i baraccati si portavano, loro malgrado, tatuato addosso. Ed anche la condizione d’invisibilità sociale del baraccato, agli occhi della Salemi bene, era reale, era un dato di fatto. In effetti, il disagio di essere, per un tempo indefinito, terremotato in senso lato l’ho vissuto anch’io sulla mia pelle. Mille e mille volte mille, soprattutto nella mia adolescenza, mi sono chiesto e ripetuto se tutto ciò fosse giusto, alla luce di un senso di uguaglianza sociale che già si era fortemente radicato in me. Tuttavia, alla distanza, l’esperienza di baraccato mi è servita come banco di prova per la vita, mi è stata utile per rafforzare la mia personalità, l’essenza di uomo del mio tempo. Probabilmente, e ringrazio Dio anche di ciò, non sarei quello che sono adesso. Ma, conoscendomi bene, tornerò a parlare di quello che è stato quel periodo della mia vita. Però, una riflessione s’impone. Il romanzo di Castelli è interessante al livello sociologico : una famiglia che ha subìto una rovinosa battuta d’arresto lungo la strada, crede nella possibile ricostruzione del proprio percorso di vita, ha fede nella “rinascita” dopo aver percepito la spessa polvere delle macerie di una città. E lo scenario non può essere nell’amara terra di Sicilia, ma altrove. Ecco, d’un tratto, la luce, lì, in fondo al tunnel, che attira a sé gli occhi onesti e coraggiosi dei protagonisti. Finalmente, il barlume di speranza che essi attendevano con fiducia e trepidazione. Il testo di Alberto Castelli, perciò, dovrebbe essere letto, oltre che da una amplissima platea di lettori – e mi auguro che lo sia davvero per la sua intrinseca validità letteraria – da ogni salemitano di buona volontà poiché le tue parole si configurano come testimonianza storica di un evento drammatico, come spaccato di una Salemi di una volta, che mi auguro possa, finalmente, aver cambiato pagina. In ogni caso, se la prima parte rispecchia in sé quel notevole aspetto valoriale già citato, anche la seconda parte è ben congegnata quanto ad ideazione, spunto creativo e argomentazione. Tra le righe e gli eventi, si cela quella passione per una terra, la nostra Sicilia, che mai si può disperdere e mai può perire; emerge pure il substrato culturale di provenienza, mai accantonato o deliberatamente rimosso, nonostante le nuove esperienze e le conseguenti interazioni ed integrazioni, nel corso della rinnovata vita lavorativa ed affettiva; e, d’altronde, l’amoroso tributo alla lingua madre, il nostro siciliano, è palese e pulsa nelle espressioni verbali e nelle battute di dialogo come contraltare dell’italiano parlato. E fa parte del gioco, anche certo retaggio (ad esempio, la verginità come macrocosmo d’azione della brava ragazza che è Maria) o la visione schematica del mondo, la paura atavica del giudizio della gente locale, i modi di fare, gli atteggiamenti dei siciliani “romanizzati”. Inoltre, qua e là quel pizzico di garbata ironia che condisce il tutto… Poi, inaspettatamente, fa capolino l’Eros all’ennesima potenza, un Eros come fattore di integrazione, come elemento primordiale dell’esistenza, che, grazie ad esso, viene riportata a nuovo splendore, alla luce dopo l’oblio. Comunque sia, il romanzo “Maririna” è una storia a lieto fine dopo lo schiaffo della burrasca. Potrebbe essere inteso anche come primo episodio di una saga familiare, di un processo evolutivo nell’affermazione positiva di una famiglia che ha sgobbato onestamente a partire da un cammino accidentato. Inoltre, il testo mi è sembrato convincente e ben realizzato in tutte le sue parti; tiene bene la struttura narrativa, la dinamica degli eventi, la lingua e, a scrutare tra le righe nidificano ulteriori significati metaforici.
Salemi, 16 marzo 2019
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