San Giuseppe cena a Salemi (TP) – prima parte

Le Cene di S. Giuseppe a Salemi (TP) 

Ogniqualvolta si nomina la città di Salemi, la prima fulminea idea che balza alla mente è la festa di San Giuseppe del 19 marzo. Anzi, nel corso del tempo che corre a briglia sciolta verso l’ignoto futuro, Salemi è diventata, per antonomasia, il set dei set della celebrazione popolare del Santo, sposo di Maria e padre putativo di Gesù. D’altronde, il Santo è veneratissimo nella città del Vallo di Mazara, è proprio di casa e verrebbe da dire, come ho fatto nell’incipit, che San Giuseppe cena sempre a Salemi, in ognuna delle dimore dei salemitani dove non manca mai la sua immagine, austera e paterna, come protettore privilegiato della famiglia. In altre parole, Salemi è nota principalmente per le secolari “Cene” di San Giuseppe. Ciò non dispiace affatto, ma, a dire la verità, Salemi dovrebbe essere ancor più apprezzata per l’incantevole scenario paesaggistico, le stradine del Rabato, le campagne ridenti, le fertili contrade che, tuttora, riportano la peculiare denominazione araba, i panorami ineguagliabili, per la storia, le chiese, il suo ottimo cibo e chi più ne ha, più metta. E, invece, viene ricordata solo a marzo, mentre, a buon diritto, potrebbe essere vissuta in tutti i sacrosanti giorni dell’anno. Ad ogni buon conto, torniamo alla festa dei pani, qui a Salemi. Purtroppo, la sua origine si è già smarrita nei meandri della notte dei tempi e non esistono notizie certe sulla sua ragion d’essere e sulle motivazioni che ne determinarono il primo manifestarsi. Probabilmente, ed è cosa risaputa, l’idea scaturisce nell’antica civiltà contadina dove gli attori principali erano, oltre ai nobili e baroni di lignaggio feudale, i cosiddetti “burgisi“, i quali, forse, per rendere più salda la predominanza sociale acquisita del proprio ceto sui subordinati, ossia i poveri contadini “zappaterra“, si atteggiavano, almeno una volta all’anno, in misura maggiore a benefattori dell’ultima ora e facevano imbandire ricche mense, nelle loro grandi masserie, a chi era stato punito ingiustamente, fin dal primo vagito, dalle privazioni di una vita dura e avara o da un’inevitabile e quasi immutabile collocazione  censitaria. Allora, ecco che l’indizio di tale provenienza potrebbe ricercarsi nell’uso univoco delle mani che non potevano permettersi di perdere inutile tempo con posate di alcuna foggia o sorta nell’agguantare il bendidìo elargito dalla magnanimità del burgisi. Tuttora, le pietanze, di cui diremo oltre, vengono distribuite dai Santi, accettate e consumate con le mani dai tanti partecipanti che assistono al lungo pasto della Sacra Famiglia, riunita tra l’alloro, la mortella, le arance, i limoni, la sontuosa simbologia che struttura la “Cena“. Nondimeno, al fine di sedare le minacciose offensive di germi e batteri, sono comparse, sulla scena rituale contemporanea, il trio a noi assai familiare: cucchiaio, forchetta e coltello. Tuttavia, questa tradizione è avvolta da una fitta coltre di mistero, a causa dei frettolosi cronisti del passato che la snobbarono, considerandola di poco conto e di fin troppa umile genesi. Eppure, la festa salemitana del Santo Giuseppe racchiude in sé un microcosmo nascosto ed estremamente corposo di misticismo popolare, devozione, fede, simbolismo rituale e un certo paganesimo di fondo che fotografano, in maniera mirabile, quella che era la società, semplice, essenziale nel credo e nei modi, dei nostri avi, non evoluta quanto la nostra, ma eccezionalmente genuina e scevra di elementi di contaminazione omologanti. Oggi, l’arcaica struttura sociale di quella comunità rurale è assai distante dalle nostre corde come lontana è l’eco delle dinamiche che, in essa, si consumavano. Ma, nonostante la penuria di notizie che possano a noi restituire una seppur sbiadita immagine del contesto storico ed economico di riferimento, è assai rilevante il retaggio familiare e l’attaccamento ad una manifestazione che continua a sfidare la dissacrazione dei tempi. Infatti, quella che era percepita nel “feu” (parola dialettale che sta per “feudo”, poi passato a identificare in modo spicciativo il “pezzo di terra”, là, fuori le mura del paese) come evento corale ha attraversato indenne (o quasi!) i secoli, con identica ed integra caratteristica: nel giorno dedicato a San Giuseppe, a Salemi, si respira aria di allegria, di giubilo. Certo, una flessione d’intenti c’è stata: adesso, è fuori di dubbio che a portare avanti le “Cene” di San Giuseppe siano principalmente le associazioni locali e ad esse si deve attribuire il merito dell’ostinazione a non cedere il passo all’oblio, in agguato lì dietro l’angolo, che potrebbe far pronunciare il mesto bisillabo “fine” su una delle più belle manifestazioni d’affetto verso il Santo, nell’intera provincia di Trapani. In effetti, tale cocciutaggine viene pure riscontrata nei comuni limitrofi: Vita, Gibellina, Santa Ninfa, Alcamo (per citarne solo alcuni) proseguono nell’allestimento di altari votivi di alto pregio artistico. Comunque, è indubbio che una parte della veridicità della manifestazione, lungo tutto il suo secolare cammino, sia stata, purtroppo, smarrita. Ad esempio, manca (ed è un peccato che ciò sia accaduto) la massiccia adesione di una volta, da parte delle famiglie e le “Cene” private, che prima facevano la voce grossa durante l’evento popolare, adesso, si possono contare sulle cinque dita di una sola mano. Evidentemente, ed è inutile negarlo, è mutata la concezione di quella che era una ferma, essenziale, intima religiosità, è cambiata la consistenza del tessuto sociale e si è trasformata la comunità intera, che, in Salemi, ha vacillato dopo il tremendo scossone dovuto al sisma del 1968, i rapporti di vicinato si sono ridotti all’osso, se non addirittura spariti del tutto. Poi, aggiungiamo l’alfabetizzazione collettiva che ha affinato l’educazione individuale e, forse, modificato in peggio la spontaneità, la sensibilità, la sincerità della gente ed è scacco matto. Per ultimo, e non secondario aspetto, vi è da registrare l’assottigliamento epocale  delle nuove generazioni,  troppo, e non a torto, distratte altrove dall’assillo di un futuro, di certo, non roseo e dal fisiologico calo d’interesse nei confronti di una tradizione, che, per ovvi motivi anagrafici,  talvolta viene vista come “cosi di vecchi”. In ogni caso, quest’ultimo dato di fatto non accomuna tutte le verdi leve, ci sono ottime eccezioni (finché durano!) alla negativa variabile e, come dicevo, l’associazionismo ce ne dà tangibile prova. Sono i giovani salemitani la speranza della città intera e su questo non ci piove. Ma torniamo nuovamente alle “Cene“. Di che si tratta? Beh, anch’io corro il rischio di ripetere quanto già detto, da molto tempo a questa parte, con fiumi e fiumi d’inchiostro, sparso a debita posta ed in momenti ben precisi, dallo stuolo di intellettuali, intellettualoidi da strapazzo, esperti luminari delle tradizioni popolari, studiosi e storici locali. In taluni casi, vi è stata una puntuale indagine dei risvolti sociologici, etnoantropologici dell’evento che si svolge, in molti centri dell’Isola, proprio il 19 marzo dell’anno. Ora, per ciò che concerne il termine “Cena“, esso, a quanto pare e con ogni probabilità, si riferisce  all’ultima cena di Gesù ed il medesimo impianto strutturale ne ricorda vagamente qualcosa. In buona sostanza, le “Cene” sono altari votivi o, meglio, dei fastosi tempietti  allestiti per onorare il Santo falegname, celebrarne la generosità del suo carisma e come pomposo ex voto, in grado di assolvere alla funzione di giusto adempimento del credente alla grazia , al miracolo ricevuti dal Santo, in particolari momenti di periglio o necessità. Quindi, il pericolo scampato fa scattare, nel devoto, la promessa di edificare le lodi e immolare il proprio sacrificio in onore del Patriarca San Giusippuzzu, erigendo la “Cena” promessa.  Così, nei mesi che precedono l’evento, il devoto si adopera al fine di reperire tutto il necessario all’opera e all’espletamento del voto. Ora, è interessante notare come sia scomparsa o quasi la formula della “cena addumannata di porta ‘n porta“, cioè la cena realizzata mediante la questua, le libere offerte in denaro e il contributo materiale, chiesto di porta in porta e sotto forma di elemosina, di altre persone, sia appartenenti alla cerchia del vicinato, del rione, sia delle varie zone o contrade della città. Sì, perché, parliamoci chiaro, l’allestimento di una “Cena” ha un costo cospicuo e non tutti, qualche tempo fa, ma pure ai nostri giorni, possono permettersi di sostenere. Inoltre, subentrava il sacrificio personale in omaggio al prodigioso Santo; il che significava, per il penitente, mettere in conto un vero e proprio atto di mortificazione durante l’elemosina, magari sorbendosi le invettive di qualcuno che non gradiva affatto versare l’obolo. In tal modo, il devoto riceveva qualsiasi bene materiale : uova, farina, zucchero, olio, miele, denaro, ecc. Poi, c’era chi, sempre di sua spontanea volontà, prometteva di aiutare a costruire l’impalcatura della “Cena”  o di portare alcune delle celeberrime “pitanzi” che dovevano costituire il pranzo dei cosiddetti “Santi” (di solito, tre bambini, che impersonavano Gesù Bambino, la Madonna e San Giuseppe; però, in alcuni casi, si poteva raggiungere il numero di cinque, calcolando la Sacra Famiglia al completo, con Sant’Anna e San Gioacchino), a mezzogiorno esatto del solenne 19 marzo. In tal modo, la “Cena” era la “Cena” di tutti gli uomini di buona volontà dell’intera città, che si stringeva attorno alla famiglia che aveva avuto il grande dono dell’epifania della grazia; dunque, un momento condiviso di fede genuina, di culto poco, se vogliamo, canonico, di vicendevole aiuto, di speranza, di dedizione convinta ed assoluta a lu Patriarca San Giuseppi e alla Sacra Famigghia. Eppure, ciò  è stato come la labile vita dell’uomo e faceva parte integrante delle fasi preparatorie necessarie alla “Cena dei panuzzi“. Adesso, è un ricordo nella memoria di chi ha cumulato parecchie  primavere sul proprio groppone. Ai nostri giorni, sbadati e distratti, come già detto, il distacco è notevole e la “Cena” si è trasfigurata in mera attrazione turistica, in evento mondano dove il forestiero viene preso  per la gola dalla “pasta cu la muddica“, dalle squisite ed infinite “pitanzi“, dalle “cassatedde” di fresca ricotta, dall’esuberanza esteriore delle realizzazioni  architettoniche delle “Cene” e, solo in secondo luogo, viene reso edotto sulle profonde motivazioni umane, culturali che le sottendono. Talvolta, nel 2019, dette motivazioni sono inesistenti… Spesso, chi aveva ricevuto la grazia esplicava la propria incrollabile devozione tra le mura domestiche, ossia in privato , senza, per forza, dare sfoggio di eccessiva visibilità. Si allestiva un semplice altare, adornato di fiori e di candide tovaglie ricamate, in casa e, quindi, il rispetto verso il Patriarca San Giuseppe si esprimeva nel benevolo e generoso atto di “inchiri li panzi a li Santi“, o, in poche parole, sfamare tre bimbi non  abbienti, nella medesima ricorrenza. Di certo, fino alla prima metà del XX secolo, le famiglie del profondo sud che tiravano la cinghia ed arrancavano per campare costituivano una grossa fetta di popolazione. Difatti, non era ancora iniziata quella benedetta (ma mai equa!) distribuzione della ricchezza che, adesso, bene o male, sembra essere la cifra distintiva  della nostra attuale società. Allora, un pranzo “a sbafo”, per le bocche affamate dei figli di una numerosa famiglia, faceva sempre comodo, quasi una manna dal cielo. Come già accennato altrove, le “Cene” comportavano un’enorme abnegazione da parte dei devoti e delle famiglie beneficiate da San Giuseppe. Quindi, occorreva una strategica suddivisione dei ruoli: nelle settimane antecedenti la festa, ci si divideva le incombenze al fine di essere maggiormente efficaci in vista dello sforzo immane, sia dal punto di vista fisico, ma soprattutto, dello stress psicologico. Pertanto, le donne di casa cominciavano ad impastare farina e quant’altro e, successivamente, l’intaglio, quella stupenda operazione del “cesellare” il magnifico “pani di San Giuseppi” e le sublimi “cudduredde” (diciamo i “panuzzi ‘cchiù nichi“, autentiche forme d’arte) che, per nessuna ragione al mondo, sarebbero state vendute dietro esibizione di offerte di denaro, ma spontaneamente distribuite agli astanti, nel corso del pranzo dei Santi, e ai curiosi e tantissimi visitatori, nei giorni successivi, in maniera assolutamente gratuita come palese testimonianza della grazia ricevuta che doveva essere propalata a chiunque. Anzi, le “cudduredde” (piccoli pani, dal siciliano “cuddura“,  ciambella, forma di pane) detenevano il potere sacrale, il valore salvifico della benevolenza di San Giuseppe, espressa sotto forma di grazia terrena ai meritevoli. Esse venivano elargite a iosa, fino all’esaurimento delle scorte appese ai pali dei tempietti di alloro e mortella,  quasi fossero quote eguali di bene divino all’intera comunità dei credenti. Tutti partecipavano alla gioiosa iniziativa e all’immenso tripudio della guarigione del corpo e dell’anima : vicini, parenti ed estranei alla famiglia promotrice facevano da comparsa nella macchina scenica sul set della “Cena“. D’altro canto, i “masculi“, capeggiati dal fautore dell’evento o dal capofamiglia, affilavano cesoie,”favuci” e coltelli, si munivano di lacci e di sacchi e facevano incetta di rami di alloro e mortella e agrumi (lumie ed arance) nei fondi rurali, nei “jardini” dell’agro salemitano.

San Giuseppe cena a Salemi – seconda parte

San Giuseppe cena a Salemi – terza parte

Le parti di San Giuseppe in Salemi

‘U dottu e ‘u gnuranti

Mio logo GDB

Salemi, 18 aprile 2019

L’uso del testo e/o delle immagini contenute su questo sito, sia per intero che parziale, senza previa autorizzazione è proibita. Per ogni uso delle immagini e dei testi siete pregati di contattare l’autore con largo anticipo, mediante e-mail. Il contenuto di questa pagina e tutti i contenuti del sito (testi, immagini ecc.) sono di proprietà  intellettuale dell’autore e sono soggetti a “Riproduzione Riservata“; né è, quindi,  vietata, ai sensi della Legge 633/41, la riproduzione, anche parziale, senza esplicita autorizzazione scritta.

In classifica