San Giuseppe cena a Salemi (TP) – terza parte
Il simbolismo devozionale dei “Pani“ nelle “Cene“ di San Giuseppe a Salemi (TP)
Seguendo il discorso sulle “Cene“ di San Giuseppe, corro il rischio di ripetere le lunghe e mielose disquisizioni sull’argomento che si sono succedute e rincorse, guardandosi, talvolta, vicendevolmente in cagnesco, nel corso della storia salemitana; così, ho la netta sensazione che le mie parole siano come dei piccoli ciottoli scaraventati, a destra e a manca, a cozzare sulle viscide sponde di un fiume in piena, imperversato da una veemente corrente vorticosa.
Ciononostante, proverò e sfiderò l’altrui sacro ed inviolabile verbo.
Ho già detto che alcune settimane antecedenti il 19 marzo i devoti e i beneficiati della grazia si apprestano a preparare, innanzitutto, il pane votivo di San Giuseppe. Ora, gli elementi principali che lo compongono sono il cosiddetto “Cucciddatu“, la “Parma” e “‘u Vastuni“. Ogni pezzo, chiamiamolo così, ha un suo preciso significato nascosto ed assume una particolare rilevanza nel contesto dell’intera “Cena“. Vediamo di che si tratta e spendiamo due parole sulla sua derivazione etimologica. Uno dei “pani grossu”, di particolare valenza, ossia “‘u Cucciddatu“, trae la sua paternità semantica, in maniera alquanto verosimile, dal pane dei Romani, che, guarda caso, veniva denominato “Buccellatum“, cioè pane a buccelli o, meglio, bocconi.
Inoltre, la buccella presso i Romani era proprio una specie di ciambella che gli imperatori facevano tagliare a fette (appunto, “buccelle“) per poi distribuirla, condividerla, nei giorni solenni di festa, con i clientes e i commensali che, spesso, assumevano un ruolo parassitario, nel codazzo imperiale.
Almeno questa è una delle tante ipotesi che circolano al riguardo; altre chiamano in causa addirittura i Lucchesi, nel Medioevo palermitano, e gli Arabi colonizzatori della Sicilia, ufficialmente a far data dal IX secolo.
Nello specifico, ‘u Cucciddatu è il pane che verrà destinato al bambino che dovrò interpretare, senza alcun intervento del “sonoro”, durante il pranzo dei Santi, la figura di Gesù.
Esso è uno dei tre “pezzi “ principali e fa parte del “pani grossu“ esposto sull’altare centrale della ”Cena“.
La sua forma ricorda, all’incirca, quella di un imponente fiore, o, ancor meglio, quella di una stella, la più importante, cioè il Sole, appunto perché Gesù viene ad essere l’emblema della Verità illuminante. Sulla superficie di questo “pane grossu“ si può notare la scritta “Gesù” o la sola iniziale “G”. Va detto, tuttavia, come ci sia, in tutta l’impalcatura e pure sul suddetto “Cucciddatu“, un’ossessiva ripetizione simbolica della breve vita e della Passione di Gesù Cristo e, quindi, l’identificazione delle figure dei San Giuseppe e la Madonna tramite la costruzione e fruizione di una sorta di nomenclatura di segni ricorrenti. Allora, sul “Cucciddatu“ troviamo riprodotta la “cammisedda“ (la piccola “camicia” di Gesù in fasce), la quale dichiara la semplicità, nonché la povertà del Figlio di Dio; poi, i fiori di gelsomino, il globo terrestre, la croce, la corona di spine di rovi, i tre chiodi della Crocifissione, il martello, la scala, la lancia che trafisse il costato del Cristo. Taluni aggiungono la “cuffitedda“, ossia una specie di cesta, in fibra vegetale, che contiene i terribili strumenti con cui fu issata e fissata sul Golgota la Croce su cui spirò Gesù: cunei, corda e non manca il sudario ed altre declamazioni metaforiche. Il complesso di questi simboli tratteggia bene, come già detto in precedenza, l’infanzia, la vita terrena, la Passione del Figlio di Dio.
E tutto l’apparato di simboli summenzionati, a seconda della perizia e dell’immaginario stratificatisi di generazione in generazione, vengono riprodotti e rappresentati o in toto sui “pezzi“ (chiamiamoli così) chiave della scena oppure vengono ripetuti singolarmente. In tale maniera, è assai agevole reperirli in determinati punti prestabiliti della struttura lignea e vegetale.
Altro pane di notevole fattura artistico – decorativa e di non trascurabile significato è quello della “Parma“, pane che viene poi offerto alla ragazza che, nel pranzo dei Santi, dovrebbe calarsi nei panni della Madonna.
Oltre alla lettera “M“, è possibile notare i datteri che costituirono, secondo un racconto consolidato nella memoria popolare, il cibo di Maria durante la fuga in Egitto, al fine di evitare quel famoso bagno di sangue ordinato da Erode, ossessionato dagli incubi della lesa maestà.
Ora, seconda tale nota ed antica leggenda, Maria, trovandosi nel deserto, ebbe a soffrire i morsi della fame e gli spasmi della sete. Fu proprio in quel preciso istante che una palma (l’albero della vita, della vittoria , dell’ascesa, della rinascita ma, soprattutto, in età cristiana, della resurrezione dei martiri e della pace), alla cui accogliente ombra i tre fuggitivi si erano soffermati a sostare dalle fatiche di quel forzato esodo, si chinò per porgere a Maria i succulenti frutti di cui disponeva per poi rialzarsi subito dopo.
Sulla superficie di detto “pani grossu“ si evidenziano, inoltre, una rosa che simboleggia, con la sua fragranza odorosa e la pur discreta avvenenza, il candore vergineo della Madonna; poi, è la volta della “scocca“ (fiocco), ornamento che cingeva la Vergine Maria, emblema della femminilità; a seguire, ecco le forbici, testimonianza allegorica della laboriosità domestica della Madonna, le dodici stelle che contornano la parte superiore della “Parma“, simbolo dello Stellario, presente nella rappresentazione scultorea della Madre di Gesù, assunta in cielo.
Quindi, ricapitolando, da un lato, ‘u Cucciddatu individua, a partire dal centro dell’altare, il Bambin Gesù, poi, alla destra di chi assiste visivamente alla scena preordinata, la “Parma“ e, alla sinistra, dello spettatore posto frontalmente, il terzo e ultimo pane principale, ossia ‘u Vastuni, quello dedicato al protettore della famiglia, San Giuseppe di cui stiamo parlando.
Questo terzo pane, anch’esso finemente intarsiato e decorato, è riservato al ragazzo che farà la parte del Santo. Sopra, il suddetto pane si arricchisce di motivi floreali: emerge il fiore di giglio, simboleggiante la purezza di spirito. Accanto viene collocata la lettera “G“ di più piccole dimensioni rispetto a quelle viste precedentemente sul “Cucciddatu“ ad indicare la minore rilevanza del Santo al cospetto della figura di Gesù.
Sul “Vastuni“ (alla lettera, Bastone di San Giuseppe) figurano, oltre a elementi floreali, anche oggetti miniaturizzati che richiamano il mestiere di falegname del Patriarca tenaglia, sega, martello etc.).
Questi grossi pani votivi, appena ricordati, sono posti al centro della scena sacra, sul primo ordine di gradini partendo dal basso; sul secondo, a salire, solitamente vengono posizionati ai lati due bei candelabri realizzati con il medesimo impasto del tipico pane. Al centro, si colloca la cosiddetta “Spera“, ovvero l’Ostensorio che simboleggia l’Eucaristia.
Sempre su questo piano, viene inserito un calice finemente decorato ed altri oggetti che ricordano quelli usati, sull’altare, dal sacerdote durante la celebrazione della SS. Messa. Talvolta, tra il primo e più importante ordine dell’altare e quello dove si trova l’Ostensorio, viene previsto un ulteriore gradino che ripete la collocazione del “Cucciddatu“, della “Parma“ e del “Vastuni“, di foggia e proporzioni minori che stanno a significare la comunità dei fedeli che riceve la grazia salvifica di Dio.
Tuttavia, basta osservare da vicino la “Cena di San Giuseppe“, già completata e riccamente addobbata, per rendersi conto che essa sia davvero un crogiolo inusuale di richiami allegorici, unici nel loro stesso ciclico rigenerarsi e collocabili in una ben precisa concezione del mondo e delle influenze del divino sull’umano.
E’ tutto un corollario di forme stilizzate che permeano una religiosità delle origini, netta e ridondante nella sua vistosa manifestazione. Una religiosità che, però, concede, nel contempo tollerandola, una spiccata visione apotropaica intesa a scacciare i demoni, le insidie, le avversità di una vita familiare agra.
I “panuzzi” che, oggi, hanno subìto un’inevitabile contaminazione di genere e di stile, illustrano il cosmo, le età passate e quelle future, il sacro e il profano, l’ordinario e lo straordinario. Insomma, la “Cena“ intesa come strumento mediatico sui generis capace di riproporre una memoria popolare ancestrale che ha saputo coniugare la fede con le credenze, i riti privati con le liturgie ufficiali, il paganesimo con il cristianesimo in una congerie di gesti, di segni, una miscellanea di suggestioni, di epifanie divine, che hanno sfidato i secoli per giungere quasi intatte fino a noi.
Così è possibile ammirare la stella cometa, icona per antonomasia della Natività di Nostro Signore, il gallo che pare cantare a squarciagola, indispettito, quasi urlasse dietro a Pietro quel suo umano tradimento nei confronti del Maestro; poi, molteplici frutti di tipologia mediterranea, fiori, uccellini e animali domestici, gravidi baccelli che sembrano partorire le pingui fave. A proposito delle appena citate fave, esiste una particolare credenza secondo la quale la forma più o meno rigonfia possa essere legata all’auspicio, voluto, richiesto e ricercato, presso le sfere celesti della preghiera, dell’invocazione della grazia di prosperità futura, dell’abbondante raccolto e, quindi, della concessione del benessere della supplice famiglia che ha realizzato la “Cena“. Meglio avere dei legumi di pane molto panciuti anziché striminziti!
Insomma, il filo conduttore della realizzazione scenica è il ringraziamento devozionale, l’ex voto al Santo per ciò che si è ricevuto, ma costante è l’intreccio indissolubile con lo spunto ancestrale della propiziazione della divinità, con la spasmodica tensione emotiva dell’attesa, della profusione del bene divino, del ricevere, ad ogni costo, la ricca annata che possa scacciare la negatività dei periodi di vacche magre.
Pare proprio che la minuscola cattedrale di pane votivo possa individuare, a chiare note, l’espressione di una captatio benevolentiae, di un progetto fascinatorio, abilmente architettato, nei confronti dell’entità superiore. Ed ecco la “Cena“ in tutto il suo splendore: le “cudduredde“ , legate ad un sottile spago e ad un segmento di canna sono state già messe al loro posto, seguendo un certo criterio simmetrico e risplendono, nel verde santuario , di una singolare luce dorata. Lo si deve all’insostituibile accorgimento adattato dalle brave donne salemitane: esso consiste nel cospargere la superficie delle “cudduredde“ con uovo sbattuto, durante la fase antecedente la cottura in forno.
Nell’allestimento non bisogna mai dimenticare talune “componenti d’arredo”: sul primo gradino dell’altare (che sembra quasi derivare dall’ara sacrificale dell’età romana), occorre porre delle pregiate caraffe d’acqua (segno di purezza), altre colme di vino (il sangue versato da Gesù sulla Croce) che sono anche precisi riferimenti alla predicazione di Cristo in Galilea e di taluni celeberrimi episodi della sua vita. Inoltre, le mensole attigue a questo gradino principale debbono prevedere la presenza di vasi con fiori, cestini con frutta, candelabri di pane, curiose fette di angurie di gesso, ampolle di vetro, ulteriori vasi di vetro dove guizzano pesci rossi (evidente riferimento al simbolo cristiano delle origini, nonché immagine di innocenza), piatti su cui germogliano cariossidi di frumento (quasi a chiedere a Dio la benedizione del buon raccolto stagionale).
Davanti all’altare, le donne indaffarate hanno già steso un grande tappeto rosso dove figurano ennesimi oggetti dalla forte carica simbolica . Vengono così posti un agnello sacrificale che ricorda la Pasqua, fatto di gesso o di pane, vasi con fiori freschi dai colori sgargianti, altri vasi con ciclamino e l’immancabile “balacu“ (Matthiola incana, fiore che, di per sé, è il sinonimo stesso della bellezza imperitura) che, spesso, ornava, civettuolo, i balconi e i davanzali dei rioni storici salemitani; segue un grande rosario di pane, un leggio con tanto di Vangelo, “li scarpuzzi di lu Bambineddu“ (pantofoline del Bambin Gesù, un candido asciugamano di lino ricamato che compone la consonante iniziale “M“ del nome di Maria, mazzetti di finocchi verdi e poi pane, panuzzi, cudduredde e ancora quintali di cudduredde, pane e panuzzi sulle varie mensole, mentre il penetrante olezzo d’incenso invade lo spazio sacrale. Ora, nel silenzio che precede il clamore del pranzo dei Santi, nella calma della contemplazione, chi ha il privilegio di poter sostare al cospetto della ”Cena“ e di riflettere sulla realizzazione artistica di alto pregio, viene colto da un stupore improvviso: sembra di essere catapultati a ritroso nel tempo, nel pieno del Rinascimento italiano. Ecco, ora, pare di vivere, in prima persona, e di fruire, magari ponendosi all’angolo del piccolo santuario di pane, di una mirabile tridimensionalità davanti ad uno dei celebri quadri rinascimentali del pittore veneto Andrea Mantegna (1431 – 1506), “La Madonna della Vittoria“ (datata 1496), una splendida tavola d’altare di tempera su tavola o, ancora, la “Pala Trivulzio“ (Madonna in gloria con i Santi Giovanni Battista, Gregorio Magno, Benedetto e Girolamo), dipinto a tempera a colla su tela del 1497.
Le quinte vegetali di entrambe le opere richiamano, guarda caso, l’abside del “santuario” della “Cena” di San Giuseppe. Tuttavia, la meraviglia coglie di sorpresa il visitatore allorché lo splendore dell’oro del pane, con la sua inconfondibile fragranza, si fonde con le cromie dei gialli limoni che appaiono sull’intelaiatura lignea della “Cena“ quasi fossero il simbolo della luce radiosa, del colore acceso del sole mediterraneo e del rosso arancione delle arance che, già nella mitologia greca, erano il simbolo della fecondità e dell’amore, come ben sapeva quel mattacchione di Zeus che fece custodire tale agrume, dono prezioso e succulento, in un giardino tutelato dalle ninfe Esperidi.
E chi sta scrivendo sa bene cosa comporta, in termini di dedizione, lavoro e di sacrificio, allestire una “Cena“ al Santo falegname e può testimoniare l’emozione derivante dall’erigere e dal vedere coronato un autentico gioiello dell’arte popolare siciliana, sperando, in cuor suo, che le nuove generazioni non disperdano il retaggio culturale dell’evento.
Per il momento, non vi è altro da dire o aggiungere più di quanto non sia stato già detto o aggiunto prima di me e, magari, con maggiore chiarezza espositiva. Il “santuario” è pronto per la cerimonia e quel barbuto fraticello, uscito probabilmente dal Convento dei Cappuccini, nel rione omonimo di Salemi, a dorso del suo mulo, con il suo lento procedere, là tra le frasche odorose dell’addauru e della mortella, sembra l’araldo inviato da San Giuseppe a preannunciare ai fedeli che l’alba del festoso 19 marzo salemitano è alle porte.
Ne ho visto di “Cene“ nella mia vita, qui a Salemi, ma, ogni volta, ho come l’impressione che, d’un tratto, dall’alto delle volte architettoniche che custodiscono l’altare, possa materializzarsi il venerando Noè che si possa mettere al timone e far salpare questa immensa Arca di Pane, chiedendo al Patriarca San Giuseppe di tracciare una nuova rotta, alla volta di un indefinito Eden, dove poter preservare la bellezza di quanto Dio ha saputo dispensare agli stolti uomini e, perché no, l’incantevole arte degli altari di Pane di Salemi.
San Giuseppe cena a Salemi – prima parte
San Giuseppe cena a Salemi – seconda parte
Le Parti di San Giuseppe in Salemi
Salemi, 24 agosto 2019
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