Serenata salemitana al chiaro di luna

Dichiarazione d’amore in una notte di maggio

Una delle più belle serenate siciliane è, senza alcun dubbio, quella composta dal catanese Giovanni Formisano nel lontano 1910 che reca il titolo “E vui durmiti ancora!“. Tale serenata (nota con il nome di “mattinata“) destò un vivissimo interesse nel compositore, anch’egli catanese, Gaetano Emanuel Calì, il quale innamoratosi del testo poetico, la musicò e successivamente la pubblicò a Firenze nel 1927. A quanto pare, alla suddetta serenata è legata una particolare storia che sconfina nella leggenda: nel tremendo scenario della Grande Guerra, e precisamente sul fronte carnico, la straziante melodia della “mattinata” del Formisano travalicò gli schieramenti nemici e l’assurda logica della guerra fine a se stessa, una guerra che devastò le famiglie dell’intera Europa. Una sera, un fante siciliano, dopo mesi di estenuante logorio fatto di scoppi di granate, di offensive e assalti con baionette grondanti sangue innocente, di posizionamenti, strenue difese di lembi di terra, di morte e annientamento psicologico, intonò la sonata, volgendosi alla Luna, che stava a guardare l’immane tragedia. Scese un silenzio abissale tra le trincee italiane ed austriache. Alla fine di quella malinconica e intensa esecuzione estemporanea, tutti i soldati, compresi gli Austriaci che non comprendevano le parole, applaudirono commossi, ricongiungendosi idealmente, solo per un attimo, alle proprie spose o fidanzate lontane. Ora, ho scelto, tra gli innumerevoli esempi, di accennare a questa “mattinata” proprio perché, a mio modesto parere, “E vui durmiti ancora!” racchiude in sé il significato stesso della serenata in quanto tale. Difatti, a ben vedere, nel testo l’appassionato innamorato dice che “Vui non durmiti chiùi, ccà […] dintra a ‘sta vanedda ci sugnu puru iù ch’aspettu a vui pri vidiri ‘ssa facci accussi bedda, passu ccà fora tutti li nuttati e aspettu puru quannu v’affacciati […]“. Già l’uso del “voi” riferito alla donna amata ci fornisce un dato preciso circa il concetto di rispetto o la separazione netta dei ruoli maschili da quelli femminili nella società della prima metà del Novecento, frutto del retaggio di generazioni che trasmettevano tale rigida consuetudine. Ma questa è un’altra storia. Comunque, gli ingredienti che compongono la serenata ci stanno tutti: il profondo amore verso la “bidduzza mia“, cioè la bella donna amata, quasi irraggiungibile (sembra quasi di sentire la gentile voce dei poeti stilnovisti che celebravano la donna “angelicata”), l’ardore dell’amante che sfida l’aria frizzante e pungente della sera nel vicolo semioscuro (la “vanedda“) e le ire del padre della “bidduzza” che, spesso, può esprimere un palese dissenso alla “bravata”, poiché ciò addirittura mette a repentaglio la reputazione della giovane figlia; poi la tanto attesa vista dell’incantevole donna che appaga di ogni tribolazione patita ed, ancora, il canto come messaggio o, meglio, come pubblica dichiarazione d’amore verso la prescelta tra le tante ragazze del borgo. Ultimo e non trascurabile dettaglio, ecco quella vena malinconica che affiora nella sonata al chiar di luna, quella maledetta distanza fisica che impedisce all’uomo di poter abbracciare la donna e di amarla con trasporto. Tuttavia, è la poesia a costituire l’elemento principe del testo. Una poesia schietta, nata dal grande cuore della gente semplice, genuina come le tradizioni che scaturiscono in seno al popolo. Così accadeva fino al secolo scorso, quando non esistevano i cellulari o What’sapp e quando ci s’innamorava magari soltanto intravedendo all’improvviso i dolci occhi di una fanciulla in chiesa, durante la Santa Messa, nelle funzioni vespertine o nelle sue sporadiche passeggiate domenicali, sotto lo sguardo indagatore e severo del padre-patriarca che dettava le norme inviolabili della sua famiglia. E allora il, chiamiamolo così, pretendente alla dolce manina della donna adocchiata chiamava a raccolta gli amici più fidati che interpellavano dei “bravi musici” che s’intendevano di mandolino e friscalettu (il tipico zufolo di canna a sette fori dell’antica tradizione popolare della terra di Sicilia) e, quindi, si organizzava la “sortita” sotto il balcone dell’amata per la dichiarazione d’amore. A tarda ora, con il favore delle tenebre e con la complicità del chiaro di luna, una componente essenziale all’idillio romantico, l’improvvisata (ma non troppo!) orchestrina iniziava ad intonare melodie, stornelli e sonatine, mentre il corteggiatore con il naso all’insù attendeva spasmodicamente la miracolosa epifania del volto della giovane donna. Il che significava, in caso avvenuto contatto visivo, di per sé il segno di una simpatia ricambiata, una fiammella di reciproco affetto, un primo passo verso la “zitata” (fidanzamento). Ma a complicare la faccenda contribuiva l’inaspettata e minacciosa apparizione del padre della possibile “zita” che poteva, perché no, opporre un veto e cacciare a malo modo l’indesiderato corteggiatore e annessa combriccola. E non mancavano i fantasiosi metodi di dissuasione: catini d’acqua fresca per spegnere i bollori dei debosciati molestatori o altro liquido da…pitale! Ma tutto ciò era preceduto da un’accurata azione d’intelligence: il genitore della ragazza curava l’appostamento alla finestra, in una buona posizione “da tiro”, acquattato dietro la tenda che, di tanto in tanto, scostava appena per spiare, osservare di nascosto e con scrupolo la scena, poi valutava, conoscendo bene le famiglie locali, a chi apparteneva il tizio che aveva osato insidiare la figlia e, quindi, deliberava, in piena autonomia, sul da farsi. Ora, se, putacaso, il giovane fosse rientrato nelle liste – di diffusione orale, mai scritte, ma di pubblico dominio – degli eletti o papabili e non dei proscritti e fosse già stato nelle grazie di quell’occhiuto padre perché dotato di buoni requisiti economici e sociali, allora la situazione sarebbe mutata positivamente nel giro di poco tempo. Così quel famoso padre di cui sopra, fin troppo premuroso e onnipresente nei riguardi della propria prole, nel cuore della notte, apriva l’uscio di casa e ringraziava delle “attenzioni” e del lieto canto, magari offrendo di buon grado un bicchierino di rosolio allo spasimante e relativi accompagnatori. E, come si dice in Sicilia, “Si ficiru li ficu” (i fichi sono maturi al punto giusto, il tempo è propizio per agire), cioè l’operazione aveva ottime probabilità di riuscita con tanto di approvazione paterna, di promessa di “fidanzamento ufficiale” propedeutico alla concessione della “patente” atta al futuro matrimonio. Tutto, da quel momento, doveva seguire una traiettoria rettilinea, guai a sgarrare dal ferreo rituale, immutabile nei tempi, nulla doveva sfuggire al caso, secondo le intenzioni del padrone di casa. Almeno, fino a sposalizio compiuto. Ora, nel Terzo Millennio siciliano, dopo anni e anni di dimenticatoio, la ripresa della tradizione della serenata sembra assumere nuovi connotati semantici: quel segno tangibile d’amore, espresso mediante il ricorso alla musica tradizionale, del promesso sposo verso l’amata ricompone materia ad un’aura di sogno, quasi del tutto rimossa, riscrive pagine ad un neoromanticismo contemporaneo condito con il vino del buonumore, l’olio del sacro vincolo, le perenni libagioni della passione cosparsi sull’ara del Dio Eros. A questa sorta di rito propiziatorio contribuisce l’auspicio benefico dei parenti, degli amici, sotto forma di adesione partecipata alla formazione di una nuova, solida famiglia come perno di una società di valori condivisi e fondanti. Recentemente, nella mia bella Salemi, ho partecipato ad una serenata notturna organizzata, proprio nella notte che precedeva le nozze, da un giovanissimo promesso sposo sotto il balcone della dimora della sua futura sposa e l’esperienza e l’impressione ricevute sono state davvero straordinarie. Al chiaro della luna di maggio, l’Associazione culturale salemitana “Sicilia bedda“, composta da bravissimi musicisti ed artisti e già famosa per le performances folcloristiche conosciute in tutta Italia e in Europa, ha emozionato e divertito, innescando una spiritosa festicciola, infarcita di simpatica e, talvolta, burlesca ironia, non solo i futuri sposi, ma pure la piccola e briosa platea di amici e parenti che ha ballato la contradanza e dintorni, brindando alla felicità della nuova coppia. Ed è interessante l’aspetto giocoso e gioioso della serenata: l’amore cantato, le altrui battute allusive, i doppi sensi formati dai versi, dai ritornelli delle sonate, lo scherzo s’impongono sulle traversie della vita, sulle nubi minacciose che si potrebbero addensare sulla coppia, lo scherno, la garbata presa in giro della gente, il riso e l’allegria come antidoto alle derisioni dei tempi da vacche magre. Oggi, in Sicilia, la serenata è un evento dove s’incontra la commistione dei generi letterari e musicali del tipico folklore siciliano, una moderna contaminazione tra diversi elementi della tradizione popolare del passato: ballo, strumentalità musicale, dialetto, antica poesia, canto individuale e corale di una terra pregna di attese e memoria. Insomma, una rivisitazione che ispirandosi al retaggio di un singolare repertorio musicale, tenta un doveroso e sentito recupero culturale delle radici di un popolo.

Gioacchino Di Bella

Salemi, 7 giugno 2018

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Contributi :

Testo della serenata “E vui durmiti ancora!

“Lu suli è già spuntatu ‘ntra lu mari e vui bidduzza mia durmiti ancora, l’aceddi sunnu stanchi di cantari e affriddateddi aspettanu ccà fora, supra ‘ssu balcuneddu su’ pusati e aspettanu quann’è cca v’affacciati”

Ritornello: Lassati stari, non durmiti chiùi, ccà ‘mmenzu a iddi dintra a ‘sta vanedda ci sugnu puru iù ch’aspettu a vui pri vidiri ‘ssa facci accussi bedda passu ccà fora tutti li nuttati e aspettu puru quannu v’affacciati Li ciuri senza vui nun ponnu stari su tutti cu’ li testi a pinnuluni, ognunu d’iddi nun voli sbucciari si prima non si grapi ‘ssu balcuni, dintra li buttuneddi su’ ammucciati e aspettanu quann’è ca v’affacciati.

Ritornello: “Lassati stari..”

Traduzione italiana:

Il sole è già spuntato in mezzo al mare e voi bellezza mia dormite ancora, gli uccelli sono stanchi di cantare e infreddoliti aspettano qua fuori, sopra questo balconcino sono posati e aspettano quand’è che vi affacciate”

Ritornello: “Lasciate stare, non dormite più, che in mezzo a essi in questo vicolo Ci sono pure io che aspetto voi per vedere questo volto così bello passo qui fuori tutte le notti e aspetto anche quando vi affacciate I fiori senza di voi non possono stare sono tutti con la testa penzolante ognuno di essi non vuole sbocciare se prima non si apre questo balcone dentro il bocciolo sono nascosti, e aspettano quand’è che vi affacciate.”

Ritornello:Lasciate stare…”  

Contributo visivo: YouTube “Serenata in Salemi” (TP)

Via Piersanti Mattarella, civico 24 – Salemi (TP)

Protagonisti: Lorenzo C. & Manuela M.

Notte del 31 maggio 2018

https://youtu.be/09QoazOcqpg

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