Street Art salemitana

Allegorie del presente

I murales li ho sempre definiti “muri parlanti“: hanno una plasticità comunicativa che solo poche forme artistiche ufficiali possono eguagliare. Ed è persistente in me una cospicua curiosità nei loro confronti.  In una prima fase, mi soffermo a guardarli, poi a scrutarli con attenzione, quindi, ad ammirarli. Successivamente, tento autonomamente di carpirne il significato nascosto, di interpretarne le motivazioni a monte che hanno spinto l’artista a mettere mano al “pezzo“, ossia quel che si vuol definire “graffito” oppure “murale”. Spesso, li notavo nelle periferie urbane delle grandi città del Nord. Adesso, li scopro tra le viuzze della bella Palermo, dalle parti di Ballarò, della Zisa o delle traverse di Via Vittorio Emanuele, laddove cominciano le zone d’ombra o le contraddizioni a cielo aperto della città cosmopolita. Così, tutte le volte, in qualsiasi contesto siano essi inseriti, li considero frammenti di un vissuto, un clic, un fermo immagine su una determinata comunità umana che nessuno può permettersi di sottovalutare. Ebbene sì, sono l’approccio del frastagliato uomo di oggi che si trasforma in artefice del proprio percorso, della propria dolente o lineare esperienza di vita. Dunque, l’uomo che afferma prepotentemente di esistere, nonostante tutto, accampando naturali diritti ad alzare la voce, a squarciare il muro del silenzio che, sovente, invade il nostro tempo banale e malato. Pertanto, tali nuovi artisti, con la loro inconfondibile “voce“, sono ora interpellati a riqualificare i quartieri di “secondo piano“ delle grandi città. In altre parole, quegli anonimi agglomerati che languono in un limbo di incertezze sociali e materiali, immersi come sono nelle sabbie mobili della precarietà di eventi e fortune. Purtroppo, medesima sorte spetta ai paesini, distanti dai caotici capoluoghi, che si vanno spegnendo nel progressivo e drammatico svuotamento di anime nelle inumane dinamiche migratorie. Ora, la mano del writer, la sua vituperata bomboletta spray, il pennello e la vernice, la sua sovversione ideologica, l’indefessa tenacia artistica tengono una sorta di briefing con i “sopravvissuti” del borgo. Ed è proprio la gente che ha deciso di rimanere, costi quel che costi, lì, in quel preciso rione. In ogni caso, il pittore estemporaneo sa cos’è successo, indaga, interroga, ascolta, in religioso silenzio, i sogni del ragazzo che gioca a pallone giù per la strada, scruta negli occhi del nonnino, seduto davanti all’uscio scardinato e vi capta bagliori di un miraggio che fu. Poi, l’oracolo della “pittata” memorizza i segni, i consigli, la voce, le pulsioni, le trame di tutti quei cuori. In realtà, egli riesce ad interiorizzarli, li decifra, li tramuta in materia viva, in affreschi grondanti sangue e terra, riso e dolore, tragedia e commedia. Così la “pittata” è il racconto corale di una comunità in movimento. E, per favore, non generalizziamo il discorso, non facciamo di tutta l’erba un fascio. D’altronde, qui non stiamo parlando delle scritte selvagge e sgrammaticate che deturpano gli angoli delle vie, le vetrine dei negozi, la stele ai caduti delle guerre d’Italia o mondiali, le panchine del parco pubblico, i palazzi abbandonati e mai ultimati o appena allestiti. Senza alcun dubbio, ciò appartiene al fenomeno del barbaro ripetersi  del becero vandalismo, stupidamente iconoclasta. Invece, il murale – graffito ha in sé un puntuale significato simbolico che ognuno di noi può leggere e interpretare, a seconda della propria sensibilità. E’ la sensazione che ho avuto nello scorgere, con mia grande sorpresa, un magnifico murale, tratteggiato in maniera essenziale, ma con stile efficace, nella mia Salemi. Una gigantografia della Sacra Famiglia (realizzata lo scorso 19 marzo) che porta con sé un inequivocabile indizio del mutamento dei tempi. Una scena ordinaria, semplice, ambientata in una dimessa dimora che può essere localizzata qui o altrove, in una zona remota del Sud del mondo. In questo preciso caso, le emaciate figure, i volti scavati di Maria e di Giuseppe palesano un vissuto che stride, fa volentieri a botte con le odierne e indecenti ricchezze degli uomini. Anzi, per meglio dire, i Santi Genitori del Cristo trasmettono una modestia di gesti spiazzante. Oltre a ciò, gli atteggiamenti e sguardi d’affetto ci sembrano ormai inconsueti, ma, nella straordinaria e pur scarna raffigurazione, predomina quel particolare, quel naso camuso del bimbo. Pare un  moderno Gesù, che dilania le nostre coscienze. Egli ci chiede, d’un colpo, di fare mente locale sulle nostre pochezze, sulla rigida e limitata percezione di come, oggi, va il mondo. Proprio così, egli quasi impone una revisione delle nostre incrollabili posizioni, guida i nostri passi futuri su possibili e, di certo, auspicabili, sentieri di umanità consapevole. L’enorme “pezzo“ reca la firma del Collettivo FX, artista reggiano che ha già lasciato ampie testimonianze visive, in varie parti del nostro Paese. Peraltro, il Collettivo FX si è finora distinto per la spiccata connotazione sociale dei murales dipinti in simbiosi con i contesti urbani prescelti e per la voluta interazione con gli autoctoni resilienti che hanno, addirittura, caldeggiato i relativi bozzetti, soggetti o temi dell’opera. Per dire la verità, mi piace il murale “San Giuseppe di tutti i giorni“, non fosse altro che per la location davvero singolare. Quella scelta strategica della via Leonardo da Vinci come luogo decentrato, ma catalizzatore di critiche, opinioni, di forti suggestioni visive. Infatti, la suddetta via Leonardo da Vinci si snoda a lambire le palazzine della Saiseb, marchiate come “popolari”, le quali insistono nella parte bassa della città del Val di Mazara. Ecco il Sud dormitorio di Salemi che, finalmente, viene rivalutato, soprattutto da estranei, dopo anni d’oblio, e non dalla totalità della parte dominante, il Nord altolocato, comunque e a tutti i costi, del comune trapanese. Di conseguenza, riaffiora, così, l’insanabile dicotomia tra i valori sottesi e affibbiati alle prime due lettere discriminatorie dell’alfabeto, A e B, metafore del centro e periferia, le due facce di una presunta ed erronea classificazione di stratificazione sociale. E’ indubbio, tuttavia, che nelle intenzioni ideative dell’Associazione socioculturale “Peppino Impastato“ di Salemi, sia individuabile la precisa volontà di proporre un’alternativa alle epocali e mai risolte contraddizioni salemitane. In buona sostanza, un interessante spunto di riflessione che possa portare alla ricostruzione dalle ingenti macerie del passato, di un luogo d’incontro, di una platea d’idee condivisibili, all’edificazione di un nuovo presente, fino alla ricerca di una possibile rinascita della comunità locale. Insomma, una via comune da seguire nella piena accettazione del luogo e delle sue ancora latenti peculiarità, nella riappropriazione di una ormai sbrindellata identità sociale. Ancora una volta, l’arte vien chiamata in causa, a svolgere un ruolo attivo nella mediazione – interazione tra soggetti di un medesimo retroterra e gli influssi extraterritoriali della curiosa contemporaneità, di attori esterni fortemente interessati al nostro immenso, ma malandato patrimonio ambientale, storico – monumentale. Per certi versi, sono caparbi, motivati, questi giovani salemitani della “Peppino Impastato“. Non a torto, essi ritengono che sia prioritario proseguire il percorso, già tracciato qualche anno fa con abnegazione ammirevole, di un rinnovato processo culturale che investa le coscienze sopite dei tanti paesani disillusi. Tuttavia, non con sterili e vuote parole, ma con l’impegno volitivo, con i fatti, con le prese di posizione e, perché no, come in questo caso, scendendo in piazza con lo strumento tagliente della Street Art. E’ lecito insistere su quest’ultimo aspetto: l’idea prorompente dell’Associazione “Impastato“ è assai valida in sé, impertinente come l’ardore della gioventù. Sicuramente, di ciò ha bisogno Salemi per scrollarsi di dosso le ragnatele, per agitare le acque stagnanti della palude. Innanzitutto, occorre credere nel possibile futuro. E’ questo l’inizio della ricostruzione morale della comunità che la città di Salemi, per certi versi, merita. Insomma, una progettualità di diversa concezione che adotta l’arte come abbrivio, come spiraglio di luce in fondo al tunnel. Nel frattempo, il grande murale è stato ultimato in un batter d’occhio. Senza tanti preamboli, ha occupato l’intera superficie di una palazzina popolare prospiciente, da un lato, la suddetta via Leonardo da Vinci che porta, di filato, nel cuore del cosiddetto “Paisi novu“ ossia la nuova zona residenziale sorta, in maniera del tutto scriteriata, nelle contrade San Giacomo, Gessi di Drago e dintorni. Una zona in cui si è concentrata buona parte della popolazione salemitana e dove c’è tuttora una notevole penuria di servizi essenziali (banche, farmacie, attività commerciali, stazioni di servizio, chiese, studi medici e via discorrendo). Ma questa è un’altra storia collaterale alla drammatica frantumazione della comunità salemitana dopo il sisma del 1968. Chiaramente, un’assurda marginalità che continua ad interessare le diverse contrade in cui si suddivide il paesino. E i grandi occhi dei componenti la Sacra Famiglia sembrano testimoniare tutto ciò: sono come l’occhio attento della cinepresa di un regista, cui non sfugge nulla, alla ricerca del campo totale dal quale descrivere i personaggi e l’ambiente nella loro complessità d’insieme.

“Sveglia! Ciò che c’è non è tutto“

Analogamente, non si fa neanche a tempo a girarsi ed ecco spuntare, all’improvviso, un altro surreale attore. Ecco, il protagonista di un’ennesima vivida allegoria che si staglia, con mole inaudita, davanti allo spettatore. Sulla ex centrale elettrica, quasi diroccata, che si trova alla confluenza delle vie Regione Siciliana e Leonardo da Vinci, è stato dipinto un inquietante murale dove si staglia una enorme figura dormiente. Ebbene, quel gigante pare essere lì da secoli, immobile e avvinto da un profondissimo sonno e mai svegliato dall’incantesimo della rinuncia salemitana. Certo, qualcuno penso abbia fatto finta di non accorgersi della sua presenza. Da queste parti, tanta è ancora la falsa distrazione o, meglio, l’assuefazione della gente alla mentalità distorta del “chi te lo fa fare, lascia stare, non puoi cambiare le cose, sono sempre andate così“. I tratti dell’individuo sono stranamente identici ad altre fisionomie già ricorrenti nei “pezzi” o nelle ”pittate” del Collettivo FX. Forse, si tratta del ripetersi di un cliché consolidato, che, tuttavia, non sconfina mai nel banale, ma, al contrario, è portatore di un monito universale. In realtà, quell’uomo, che dorme beatamente in posizione supina, con la testa poggiata su una scomoda valigia da emigrante dei primi del ‘900, è un vero trascinatore di folle. Egli ha fatto incidere nel cielo, a caratteri cubitali, un vibrante ammonimento: “Sveglia! Ciò che c’è non è tutto“. Ora pare somigliare a Gulliver che incita Lilliput a vincere la battaglia contro Blefuscu. Egli afferma che “L’uomo è artefice del proprio destino“. Inoltre, sostiene che occorre destarsi dal torpore e non aspettare la manna dal cielo. Appena qualche decennio fa, a questa latitudine, tali verità non venivano pronunciate da nessuno (o da pochi coraggiosi!)  poiché  costituivano un tabù inviolabile! Lo stile dell’opera ricorda quello del cosiddetto “Biancone”, ossia “pezzo“ realizzato a rullo o pennello e di spropositate dimensioni. Ebbene, lasciando ovviamente spazio alla semiologia che non mi compete, è quasi spontaneo riportare un’osservazione di uno scrittore, Paul Goghi. Costui sostiene, a ragione,  che “…l’arte di strada ha la capacità di suscitare una reazione in tutti noi, indipendentemente dall’età“. Ciò non è roba di poco conto in un’epoca, la nostra, dove l’appiattimento e l’omologazione del pensiero costituiscono un’insana abitudine.

Una moltitudine in cammino.

Intanto, a distanza di pochi chilometri, su uno smorto muro di cemento che costeggia un discutibile viadotto di Salemi, costruito in anni di vacche grasse, appare, come per magia, una moltitudine di persone che procede in fila indiana.  Stavolta, le donne indossano lunghe e variopinte vesti, gli uomini sorreggono i vecchi, i bimbi, ora, hanno un’espressione più pacata, sorridono alla vita, lontano dalle guerre civili che hanno tramortito i loro sensi. Tale moltitudine ha diverso colore della pelle, è in cammino verso univoca direzione, si tiene per mano, solidale, e compone l’unica famiglia dell’uomo. Quindi, la scena si tinge di rosso: un costellazione di cuori rossi colora lo sfondo. Indubbiamente, ha proprio ragione Banksy, il fantomatico writer inglese che si è guadagnato la fama di uno dei maggiori esponenti della Street Art, quando afferma che “Un muro è una grande arma. E’ una delle cose peggiori con cui colpire qualcuno“. Ora, quella innescata dai ragazzi dell’Associazione “Peppino Impastato“ (con il patrocino della Città di Salemi) la considero una significativa iniziativa culturale che va verso il ripensamento artistico degli spazi urbani. Ciò, s’intende, a prescindere dagli umori scostanti, dalle reticenze o infischiandosene altamente delle altrui resistenze, dei consensi di facciata, e delle eventuali, inevitabili, stroncature. Spero possa protrarsi a lungo, senza finire nelle fauci delle solite e sterili polemiche di parte. Staremo a vedere.

Graffitiincittà – i muri parlanti

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Salemi, 19 aprile 2018

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