‘U corcu siciliano, ovvero, un semplice arnese dei “viddani di c’era ‘na vota“
Oggi mi va di parlare di un arnese che tutti noi, dalle mie parti, abbiamo usato almeno una volta nella nostra vita e che era conosciuto con uno strano nome: ‘u corcu. Ecco, noto già la vostra smorfia che la dice lunga. E che sarà mai? Mai sentito! Boh! Ebbene, non era altro che il prolungamento, diciamo così, della mano! Sì, perché la mente finissima dei viddani (contadini) di molto tempo fa si prodigava in suggerimenti strategici che potessero rendere la loro fatica quotidiana meno stressante del solito. Ma di che stiamo parlando e di che si tratta? Ora, u‘ corcu era un tipico bastone, abbastanza lungo che presentava all’estremità una sorta di gancio a forma di 1, anzi, per meglio dire, a prima vista, ‘u corcu sembrava proprio un numero uno con quell’unica gamba estremamente sviluppata in lunghezza. Esso veniva adoperato per raggiungere i frutti inaccessibili di un albero; ad esempio, per piegare i rami flessuosi dell’ulivo, in modo tale da consentire la raccolta delle belle olive mature; poi, si portava con sé sotto il ricco fico di campagna e facilitava così la ranni cota di li ficu (la prodigiosa raccolta dei fichi maturi) per poi preparare li ficu sicchi (i fichi secchi) : la punta si agganciava all’alto ramo e poi il viddano (ma, in verità, chiunque !) lo tirava a sé e riusciva a piegare, quasi sempre, quel verde braccio prosperoso che, guarda caso, celava i migliori frutti nella sommità della pianta. E quell’aggeggio così spartano sostituiva egregiamente, in quasi tutte le occasioni, le pesanti e robuste scale a pioli di legno. Talvolta, poteva servire magari a spolverare “tanticchia” il groppone di qualche malandrino o malintenzionato ladruncolo goloso che osava avvicinarsi a quei succulenti fichi di cui sopra. Spesso, per evitare dimenticanze, ‘u corcu veniva lasciato penzolare all’albero per poi servirsene alla bisogna. Ed era un attrezzo utile, forse indispensabile per quei tempi andati e non si trovava nelle ferramenta di allora. Il geniale viddanu lo realizzava in un batter d’occhio: gli bastava osservare una particolare biforcazione di un ramo, magari superfluo, di una pianta. Quindi, lo tagliava all’altezza voluta con l’accortezza di recidere il ramo parallelo che correva in giù e ‘u corcu era bell’e pronto! La stagione propizia alla realizzazione artigianale di lu corcu era, di certo, il periodo di “la rimunna di l’alivi” (il tempo adatto alla rimonda degli ulivi), anche perché la particolare struttura del legno di ulivo garantiva robustezza al manufatto. In ogni caso, qualsiasi albero da sfrondare andava benissimo all’uopo. Ora, l’etimologia della parola non è chiara: probabilmente il termine deriva dal verbo siciliano “Curcari“(/kuɾˈkaɾɪ/;) con il significato di “chinare, calare, abbassare chicchessia all’ingiù”. Oggi, ‘u corcu è praticamente scomparso insieme alla semplicità ideativa del viddanu di c’era ‘na vota e, forse, fa parte dei tanti reperti che mestamente addobbano le pareti dei musei etnoantropologici isolani. Eh, sì, signori miei, i tempi sono cambiati e l’Homo Sapiens Sapiens è in continua evoluzione e, adesso, non ha spazio per quisquilie ancorate al passato (?!). La sua corsa è inarrestabile…
Salemi, 26 febbraio 2020
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