È giunto, a passi veloci, il magnifico mese di settembre ad imporre una pacata e lieve tregua all’afa estiva, che ha tartassato le terre del nostro occidente siciliano. In realtà, il periodo è stato e sarà davvero cruento, ogni anno a venire e saremo sempre più ansiosi che rinasca settembre. Ciò, per noi poveri mortali, è un dato di una drammaticità impressionante. Ciononostante, dicevo, ci è venuto a trovare settembre, carico di umori, di suoni, di cromie, di sontuosi tramonti al fosco orizzonte pensoso, che ci è stato concesso di godere. Ma settembre è il tempo dedicato alla vendemmia. I latini la chiamavano vindemia, ossia con un particolare sostantivo, che deriva dall’unione della parola vinum e dal verbo demere che significa «cogliere». Sì, proprio i Romani, che diffusero la vite, oltre che nella penisola italica, in ogni dove delle terre cognite: in Provenza, nel settentrione della Francia, nelle terre dei Germani ed in altre regioni assai lontane. E la diffusione, come già riferito da Plinio il Vecchio, in Sicilia creò un mercato interno che fece una spietata concorrenza al vino proveniente dall’Egeo e dalla Grecia. È indubbio, allora, che noi siciliani siamo figli dei Romani e ci portiamo nel sangue l’amore nei confronti di questo prelibato distillato degli dei, e Bacco ne sa qualcosa, che denominiamo, da che mondo e mondo, vino. Tuttavia, noi pingui attori del 2021, abbiamo cancellato, con un netto colpo di spugna, la memoria di ciò che significava realmente la vendemmia settembrina siciliana. Non mi va di generalizzare in negativo, non è lecito, poiché, di certo, qualcuno, e mi riferisco all’agricoltore che detiene un modesto appezzamento di terreno dove coltiva i padronali vitigni ereditati dal genitore, sta portando avanti, ancora adesso quello che era, fino a circa un trentennio fa, la genuina tradizione del fare il vino, ma il vino come si deve. Però, è indubbio che parecchi aspetti sono mutati all’accavallarsi frenetico delle stagioni, fin troppo celeri alla nostra fisica percezione. Perciò, tralasciando considerazioni, che possano esulare dal filo rosso come il vino del mio discorso, dirò la mia, senza tante circonlocuzioni o preamboli. La vendemmia che conoscevo io, qui, nella mia amata Sicilia occidentale, e che si è stratificata, in maniera insolubile, nell’ampio salone dei miei ricordi, non era permeata dal rimbombo monotono delle vendemmiatrici meccaniche ed automatizzate, che, al pari di mostri robotici invadono i timidi e biondi vigneti, ponendosi a cavalcioni sugli ansiosi filari e ne raccolgono i graspi ricolmi di acini maturi, con fredda determinazione e assai poco gentile sollecitazione, quasi strappando dal grembo materno i figlioli all’amorevole vite. No, perdiana! La vendemmia che mi emozionava, fin nelle mie fondamenta, si modulava ad un ritmo consono all’uomo dedito alla propria terra, ne rispettava i ritmi e le cadenze naturali, si sciorinava, serena, al suono delle Due Buoi, le celeberrime forbici da vendemmia, si recitava al canto degli operai, che intonavano, fischiettando allegramente, le ultime canzoni del Festival di San Remo ed era accompagnata dallo sferragliare stridente dei cingoli del trattore, che passava tra le piante. Sono immagini indelebili, che, mai e poi mai, tramonteranno in me all’ineluttabile calare dei giorni. Purtroppo, è male ammetterlo, i tempi sono proprio mutati e, spesso, non riusciamo ad avere spazi o a ritagliarci momenti per far rivivere in noi esperienze dal sapore genuino, come quello del buon vino realizzato in casa e che, ai primi sorsi, ci trasfigurava in rubicondi giullari, facendoci scordare le malignità e la marea nera dei mali del mondo. Sovente, ripetiamo a noi stessi che «non sappiamo più come si fa quel piatto, quella pietanza e…bla, bla, bla» e biascichiamo scuse, desunte dalla dimenticanza e dal trascurare dettagli quotidiani delle storie delle nostre saghe familiari; insomma, si è scisso in noi il ricordo, per dirla in breve, delle buone tradizioni culinarie, della semplicità contadina che, ricerchiamo affannosamente negli agriturismo di ogni scampolo e lembo d’Italia, delle sane pratiche artigianali, che esaltavano la manualità, che, oggi, abbiamo abbandonato orfana di lena, di attenzioni e di cuore, della genuinità delle ricette della nonna, che ci faceva gongolare il palato e l’animo. E, nella migliore delle ipotesi, riusciamo a malapena a perpetuarle, si fa per dire, mediante l’odierno e dilagante uso ed abuso del tutorial dove vantiamo chissà quali capacità, ma, nel concreto, stiamo soltanto raccattando frammenti confusi dallo sterminato patrimonio della nostra cultura popolare ed etnoantropologica, ormai svenduta al mercatino rionale delle pulci delle anticaglie, rose dai tarli e destinati a perire. Dal canto mio, non potrei mai dimenticare la faticosa vendemmia ai piedi dell’austera Montagna Grande, a pochi chilometri dalla mia Salemi, quando si andava a raccogliere l’uva matura dagli alberelli di vite, che si crogiolavano al sole benigno che risplendeva nei cieli trapanesi. Era un evento che racchiudeva in sé elementi sacrali: togliere i grappoli dalla vite, che li proteggeva con un folto mantello di pampini, significava cogliere il frutto miracoloso di una pianta dalla generosità immensa che s’immolava, una volta all’anno, affinché si potesse diffondere la sua umiltà, la sua magnanimità, nei confronti di chi se ne prendeva cura durante il resto dei mesi. E il dono della vigna colmava le carteddi, (così, tuttora, chiamiamo le capienti ceste, pardon, contenitori atti a ricevere i grappoli d’uva appena recisa) all’epoca già in plastica rigida, caricati a spalle fino al camion o il piccolo rimorchio, che si avventurava, ardito, in trazzere improvvisate al momento, tracciate in mezzo ai fondi, mediante il passaggio degli enormi pneumatici, che formavano una carreggiata da percorrere. E, spesso, al sole cocente del sud, succedeva, repentina, la pioggia inaspettata, autentica guastafeste, che impantanava, dispettosa, il mezzo nella mota di quelle fertili terre. Ogni tanto, la memoria mi restituisce l’odore degli acini, che cedevano alle lusinghe delle nostre mani che li afferravano con forza maschia. Schiacciandosi, inondavano di lacrime di polpa zuccherina le palme, che quasi si pentivano di avere violato la loro paciosa maturazione, poi alzando le carteddi, piene fino all’inverosimile, sulle spalle, dei rivoli irriverenti di mosto scendevano lungo le braccia brunite, talvolta, bagnavano la schiena madida di sudore. Sì, la vendemmia era un duro lavoro, anche se sto parlando di quella in cui si stava progressivamente adoperando l’ausilio della meccanica specializzata, che, a lungo andare l’avrebbe un po’ snaturata, e non le bestie da soma. Lungi da me dal dire che la macchina non abbia permesso l’evoluzione delle pratiche agricole ed agevolato il duro lavoro dei contadini, ma, adesso, tutto il processo di filiera è ricaduto nella standardizzazione del prodotto e nella banalizzazione dell’evento. Sì, perché la fatica era sovrumana, eppure si tratteggiavano quadretti di umanità condivisa e di rara convivialità che, oggi, sono praticamente inconcepibili, nell’attuale e meschina congerie delle collettive e fittizie nobiltà, millantate da pecore belanti e lupi ululanti. D’altronde, se la vogliamo dire tutta, quella della vendemmia partecipata, vissuta, sofferta, gioita, singolare evento corale di una comunità di chiare origini rurali, costituiva pure un’esperienza dalle indiscusse valenze formative, se non addirittura ricreative. Erano gli stessi padri delle famiglie cosiddette borghesi, dell’ormai inabissato ceto medio dei professionisti dal colletto bianco, gli impiegati statali e non, che caldeggiavano la partecipazione dei propri figli, cresciuti nella bambagia, alla campagna stagionale dell’uva. Era un modo alquanto spartano ed efficace per fomentare nei figli quel sacrosanto valore dei soldi, però guadagnati con l’onestà e la dignità del sudore che imperla la fronte. Con la paga ricevuta, l’adolescente, dedito agli studi superiori od universitari, si guadagnava un premio simbolico, che denotava l’orgoglio del primo affrancamento dai compensi paterni: un orologio, la maggior parte delle quote che concorrevano all’importo totale di una nuova fiammante Vespa 50 Special o, traguardo, quest’ultimo, davvero considerevole, l’intero saldo del costo. Tuttavia, il giovane, ancora sbarbato o implume, che si lacerava, immancabilmente, l’indice, prendendo la mira del gongolante grappolo d’uva, con le lame affilate della sua Due Buoi, affrontava di buon grado di sgobbare tra le vigne, sollazzandosi, nel frattempo, a sentir narrare le piccanti barzellette degli adulti, i concupiscenti sogni proibiti degli aitanti picciotti a caccia di belle gambe e seni ubertosi delle coetanee, a degustare il couscus o la tipica pasta al forno, offerti dall’occhiuto padrone, che, però, subito dopo il pranzo tra i pampini, incitava la ciurma a riprendere con solerzia il lavoro e sorvegliava, attento come una lince, che fosse svolto con celerità ed accuratezza. Ogni tanto, c’era pure chi, tronfio di gioia, alzava al cielo un enorme grappolo di cataratto e urlava orgoglioso: «Mizzica, ni cugghivi unu chi pisa du’ chila! (Caspita, ho raccolto un grappolo che pesa due chili!)». E aveva ragione da vendere: sovente, uno zuccu (singola pianta di vite) elargiva chili e chili di prodigiosa uva, dal grado babo zuccherino, che riusciva a sfiorare la soglia dei 17 o 18 gradi. E l’esperienza vissuta e tribolata tra i filari della campagna salemitana, si trasformava in storia che contribuiva a costruire la personalità acerba dell’adolescente, che ambiva, da quell’episodio iniziatico, a volere bruciare le tappe per essere uomo. Probabilmente, nessuno di noi o, forse, ben pochi e men che meno gli attuali sdolcinati adolescenti, sarebbero disposti a calpestare, adesso, le zolle tra i filari con le cesoie in mano o trasportare, sull’aristocratico groppone, l’onerosa cartedda. Siamo diventati figli di papà o topi d’ufficio, vincolati alla propria comoda poltrona, in una vita fin troppo ovattata e sedentaria. A dire il vero, come dicevo, la fatica era tanta, soprattutto all’imbrunire, nella fase di allestimento del carico: bisognava scaricare tutte le cartedde, allineate nelle infinite corsie tra le viti, nel cassone del camion. Ci si spezzava la schiena, sentivi scricchiolare le ossa, soprattutto per chi come me, non era avvezzo ai lavori della campagna, bensì alle “sudate carte” dell’università. Eppure, l’atmosfera che faceva da sfondo alla campagna di raccolta della vendemmia stagionale degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, assumeva toni romantici nelle pause dedicate alla colazione, all’ombra dei tralci d’uva o nei pranzi consumati su una semplice tovaglia, a contatto con la terra bruciata dai raggi insolenti del sole, una terra che evocava storie, affascinanti o tenebrose, di re, baroni crudeli, servi di una gleba spietata, di greggi e di armenti, di vinti e speranze, inseguite fino allo spasimo, lì, nella salubre aria salemitana. Sembrava di essere protagonisti di una tela fiamminga o respirare note poetiche crepuscolari. Come dimenticare l‘acquazzina, cioè quella sorta di rugiada mattutina che grondava dalle piante scintillanti o le strade irrorate di mosto a causa dei rimorchi sgocciolanti? Ho avuto pure il privilegio di assistere all’antica e tradizionale vendemmia, mediante l’ausilio delle cartedde intrecciate a mano, con vimini e canne, e l’uso dei muli e delle giumente. Le povere bestie da soma venivano oberate del pesante fardello, costituito da almeno quattro di tali enormi contenitori, posizionati sul loro dorso, che arrancavano fino a raggiungere il rimorchio. Ogni volta rimanevo stupito nell’osservare l’andatura oscillante del mulo, che ansimava dalle narici, emettendo un affannoso e fumoso respiro simile allo sbuffo di un treno a vapore. E si rimaneva incantati nel vedere intrecciare le cartedde a mano dai contadini dalla pelle color della terra, dalle rughe profonde come i solchi dell’aratro in ferro, trainato dalle bestie recalcitranti, dalle coppole che celavano, a malapena, il sudore delle tempie, dalle mani incallite a sollevare la zappa gravosa. Nulla era scontato, ogni cosa era frutto di conquista personale, dovuta al sacrificio, alla dedizione assoluta alla terra, spesso, avara e ingrata. Eppure, esisteva il rispetto e il rapporto religioso con la Madre Terra, una lezione simbiotica di fascino, devozione, cura, amore verso l’ambiente, che costituiva la ricchezza primaria delle famiglie, ancora legate al modello patriarcale. Gli anni a cavallo tra Novecento e Duemila, sono stati invece, attori di un distacco e di una dissacrazione degli schemi, sicuramente arcaici, della nostra passata tradizione antropologica. E non posso non ripescare dalla memoria il nonno Turi, un uomo tutto d’un pezzo, un ex bersagliere e caporale nella Prima Guerra Mondiale, di un metro e novanta suonati, che si infervorava, fin quando le gambe glielo permisero, all’incedere dell’equinozio d’autunno. Egli attendeva, con trepidazione, la maturazione della racina (uva), poi allertava il mezzadro che provvedeva ad allestire il teatro delle operazioni: carteddi, trattore, teloni, stivali in gomma, cerate e tanta buona volontà nelle ticchettanti forbici. Tra nugoli di vespe ronzanti, calabroni e sopportazione di afa sull’epidermide, si compiva la vendemmia degli alberelli di cataratto di Mokarta, una delle contrade più prosperose dell’agro salemitano. Tuttavia, il ricordo più vivido che conservo è legato al nonno Turi, muratore fino alla fine dei suoi giorni, che preparava la sua cantina, che poteva contare su tre o quattro botti di media capienza. Una minima parte dell’uva raccolta, previa selezione accurata da parte del nonno, veniva trasportata nella residenza estiva di mastru Turi, in quell’angolo di paradiso salemitano, che era, una volta, la contrada San Giacomo, per intenderci, proprio dove, adesso, sorge lo stadio omonimo. La prima operazione era quella di cunzari ‘a vutti, ossia preparare la botte ad accogliere il mosto. Allora, il nonno Turi raccoglieva le carrube, l’alloro, ‘u lignu duci (la radice di liquirizia che, nel territorio di Salemi, cresce, ovunque, infestando i poderi), la citronella. Quindi, faceva un bel decotto con tali essenze naturali e, ancora bollente, lo versava all’interno delle vecchie e stagionate botti, le tappava e iniziava un frenetico rullio, così da impregnare il legno, reso un po’ lasco dallo svuotamento e dalla lunga attesa estiva. Dopodiché, il mio instancabile nonno Turi, fibra d’acciaio e mani possenti, si rimetteva all’opera e si accingeva a ripulire il palmento, eretto, a suo tempo, con la sua inimitabile maestria, nel giro di circa una settimana. Ora, a beneficio di chi si sta affannando a ricercare il termine su Google, il palmento è una vasca più o meno larga, costruita con mattoni o calcestruzzo, avente una minima profondità, tale, però, da consentire la pigiatura dell’uva. In realtà, quello del nonno era un palmento di ridotte proporzioni, di pochi metri quadri, ma assai funzionale allo scopo. Le carteddi di canna, ricolme d’uva, venivano svuotate dentro il palmento a formare un bel cumulo. Il nonno sceglieva quali tipi di uva dovevano intervenire nella creazione del suo mitico vino liquoroso: insolia, ariddu (grillo), cataratto bianco e moscato. Ai tempi del nonno, non si erano ancora diffusi tutti quei vitigni attuali, dai nomi altisonanti, che riecheggiano nel raffinato registro linguistico dei fin troppo sofisticati sommelier. Ma quali Cabernet Sauvignon, Chardonnay, Pinot, Syrah! Nonno Turi, con le sue uve comuni, ma di antica e certa vocazione di pregio, era in grado di produrre un nettare che risuscitava la voglia di incontrarsi allegramente intorno ad un tavolo a raccontarsi i cunti, storie, leggende, amori e facezie, che costituivano il sale ciarliero della gente di Sicilia. E tutto ciò in economia, senza tante fisime per la testa, un po’ come la semplicità straordinaria che si gustava nel suo vino ambrato, di una corposità inverosimile. Ma il bello doveva ancora venire. Poi, nonno Turi chiamava, con la sua calda voce da comandante di vascello, la ciurma dei nipoti, che scorrazzavano, per la campagna, a caccia di grilli, intenti a giocare a nascondino o a pedalare nelle polverose stradelle sterrate. Il suo appello si sentiva da oltre cento metri: «Amunì, picciotti, viniti cca! Acchianati e facitivi quattru sauti! (Forza, ragazzi venite qua! Salite e fatevi quattro salti!)» Era scattata l’ora ics tanto attesa: la pistata di la racina (la pigiatura dell’uva). I nipoti festanti, tra cui vi ero anch’io, non se lo facevano ripetere due volte; si correva ad indossare gli stivali in gomma e via, all’arrembaggio del palmento! Per chi non lo sapesse, la sensazione che si ha nel pigiare l’uva appena raccolta è forse una di quelle che dovrebbero essere narrate nelle pagine principali di un’antologia. Schiacciare gli acini densi di polpa divina e suggere dalle narici l’intenso afrore del mosto, che non sta più nella pelle di rifugiarsi nella botte, per partorire il vino novello, è prova olfattiva ed esperienza sensoriale che ogni bambino, ragazzo, donna o uomo dovrebbe assaporare, almeno una volta nella vita. Il nonno assicurava una robusta fune ad una trave del tetto e, quindi, incitava noi ragazzi a battere ritmicamente i piedi che, intanto, si erano divincolati dalla stretta inumana degli stivali. E avanti e narrè (indietro) e gira e vota, canta di qua e canta di là, il ballo a piedi nudi, simile ad una taranta salentina, nel palmento, tra quel liquido che sapeva già di vino, ci inebriava, ci sfiniva, ci divertiva a più non posso. Mio padre Francesco Paolo, che Dio l’abbia in gloria, partecipava al rito, insieme allo zio Giacomo, maresciallo dell’Aeronautica, il quale, ogni settembre, puntuale come uno Zenith, riscendeva la penisola a bordo della Renault e, da Roma, giungeva a Salemi, con la zia e le mie cugine, a trascorrere qualche settimana di spensierata vacanza. Era un’autentica festa familiare, quella del fare il vino in casa. Nel frattempo, talune vespe, a dir poco dispettose o, forse, ubriache, si prendevano la briga di addentare le nostre teneri carni e il pungiglione, conficcato dentro l’orribile ponfo scaturito all’improvviso, ci faceva disperare dal dolore e vedere le stelle. Ciononostante, il mosto, che confluiva copioso nel tino sottostante, veniva svuotato e trasportato, ad intervalli regolari, in pompa magna, verso l’angusta cantina a far conoscenza delle invitanti botti. Dopo, altra inestinguibile esperienza sensoriale era quella di avvicinarsi, con cautela, al foro della parte alta della botte. Lo si faceva in punta di piedi, come se non si dovesse disturbare l’amplesso, appena creatosi, tra il mosto pigiato ed il legno della botte; bisognava essere pazienti nell’attendere nuova vita: la naturale fermentazione del frizzante pargolo dell’uva. Dopo qualche giorno, si sprigionava d’incanto un vagito sommesso, che sussurrava all’orecchio lievi melodie agresti. Il mosto cantava storie antiche di genti operose, eruttava spuma che descriveva la brezza che spira sul mare e sulle terre interne della Sicilia a ponente, dove gli Elimi scelsero di dimorare. Intanto, il nonno Turi, non contento, oliava con petrolio e vaselina il vecchio tornio, che, a sua volta, fremeva dalla voglia di avviluppare al vinaccia. Mastru Turi prendeva i ceppi che componevano la pressa, quindi, montata la pesante asta che azionava il torchio secolare, vi lasciava cadere i graspi, apparentemente senza vita, ed iniziava l’ulteriore spremitura. Quel che si otteneva era un concentrato di bontà che era destinato ad una botticella da cui sarebbe nato un vino eccellente che veniva dispensato solo ed esclusivamente per le occasioni straordinarie e le festività comandate. E, in tutta questa storia, non può mancare una donna d’oro, nonna Antonia, la quale allestiva un bel fuoco nel fucularu (l’antenato della cucina ad induzione o dei fornelli a gas) in pietra, che il marito Turi, mago della cazzuola e del filo a piombo, le aveva approntato fin dagli anni Quaranta del Novecento. Essa vi posizionava un capiente quararuni (grossa pentola ramata o stagnata), dove veniva versato il mosto, che si sarebbe trasformato, dopo lunga e lenta cottura, in un superbo vino cotto, ottimo edulcorante liquido di accompagnamento della cuccia salemitana, ossia il frumento ammollito in acqua, per almeno 24 ore e poi preparato, come pasto devozionale, nel giorno 13 dicembre, dedicato a Santa Lucia. Potrei continuare ad enumerare per ore ed ore altri aspetti curiosi o inediti di quella che era, per me, la vendemmia, ma un nodo alla gola mi assale. Ora che il tempo ha fatto un lungo corso, mi ritrovo a combattere con l’ultramodernità dell’oggi, come sono solito definirla. In linea di massima, non sono contrario ai vini sfornati nelle innumerevoli cantine vitivinicole sociali e cantinette di nicchia, ma non li gradisco, convincendomi, come lo sono sempre stato, di non essere un grande intenditore di vini. Tuttavia, essendo, ripeto, quasi astemio, ogni tanto, mi capita di delibare un sorso, e mi limito ad un timido assaggio, di taluni vini, con cotanta di etichetta echeggiante qualità organolettiche, gusto agrumato e profumi di rose e via discorrendo, denominati “Tal dei Tali” oppure “Vattelapesca nel bosco” e, tutte le volte, ahimè, le mie papille gustative mi restituiscono la netta ed inconfondibile sensazione che il sapore di quello che, oggi, vanta il nome di vino abbia il medesimo retrogusto chimico ed artefatto che mi fa storcere il naso e arretrare la lingua sul palato. E ciò non fa altro che ricondurmi, per contrasto di associazione sensoriale, sulla via del passato, della mia superata giovinezza, la via che mena diritto all’umida cantina di contrada San Giacomo, quella del Nonno Turi, luogo arcano e magico che racchiudeva in sé un macrocosmo di simboli e di opere dell’uomo, tutto l’amore per l’autenticità delle sfide del cuore, della genuinità dei sapori di una terra imperitura, come la nostra Sicilia, che dispensava un vino, che era la vera sintesi del profumo autentico della vendemmia.
Gioacchino Di Bella
Salemi (TP), 15 ottobre 2021
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